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A Camporeale, natura e itinerari dell'Alto Belìce

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NaturaBelice2017 01L'evoluzione era ormai nell'aria, le tre indovinate edizione di Camporeale Day hanno fatto da apripista ad un'idea che si preannuncia molto più grande e importante per la vastità del territorio coinvolto e per le innovative soluzioni adottate. Riecco quindi di nuovo al lavoro i giovani membri della Proloco di Camporeale che finora sono riusciti, con i fatti, a trainare molte delle aziende del proprio comprensorio e adesso ci provano con tutto l'Alto Belìce, porta d'ingresso a quello scrigno di bellezze naturali, enogastronomiche e culturali solcato dalla famigerata "fondovalle" SS624.

In verità, l'idea alla base del progetto "Natura e... itinerari dell'Alto Belice" è stata partorita quattro anni fa da Benedetto Alessandro e Vincenzo Rizzuto, per cui i vari Camporeale Day degli anni successivi sono solo stati dei piccoli, ma importanti tasselli che oggi ci permettono di capirne la lungimiranza e la strategia complessiva. "Natura e Belìce" è stato presentato, a giornalisti e operatori del settore, presso l'Aula Consiliare del Palazzo del Principe di Camporeale durante la mattina di Domenica 29 Gennaio 2017, giusto a pochi mesi dalla stagione turistica poichè è a quel comporto che esso si rivolge. Il suo scopo è infatti quello di promuovere il turismo naturalistico in alcuni territori della provincia di Palermo ricadenti nei Comuni di Camporeale, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Roccamena e Monreale, grazie all'attività della Proloco di Camporeale e con il parziale finanziamento ottenuto dall'Assessorato Turismo Sport e Spettacolo della Regione Siciliana. Durante la veloce ed efficace presentazione sono intervenuti, oltre agli ideatori del progetto, anche Ignazio Plaia, funzionario dell'Assessorato Regionale al Turismo, nonchè Mimmo Gelsi, Presidente della ProJato, proloco dei territori di San Giuseppe Jato e San Cipirello coinvolta nella fase esecutiva.

NaturaBelice2017 02I partner del progetto sono già numerosi, aziende vinicole, agricole, caseifici, frantoi, strutture di ospitalità, sono già più di 20 i soggetti che hanno creduto nella Proloco di Camporeale e nelle sue idee di sviluppo, alcuni di questi erano presenti alla conferenza stampa: le cantine Alessandro di Camporeale, Marino, Porta del Vento e Terre di Gratia, ma anche l'Azienda Agricola Badalà e Feudo Mondello, quest'ultima è una nuova impresa che aprirà i battenti tra pochi giorni, rappresentata per l'occasione dai fratelli Agosta e operante nel campo della produzione di pasta secca, simbolo della tanto auspicata chiusura della filiera grazie alla loro capacità di curare in proprio la coltivazione del grano, la molitura a pietra ed infine la trasformazione e la commercializzazione del prodotto finito. Le varietà impiegate sono tutte molto interessanti e spaziano dai grani siciliani antichi come la Tumminia, il Perciasacchi ed altri fino alle varietà di duri cosiddetti moderni, come l'ottimo Simeto piuttosto che l'Orizzonte, nati in Sicilia alcuni decenni fa dall'impegno del Prof.Calcagno, dalla Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia di Caltagirone (CT) e dall'Azienda Pro.se.me. di Piazza Armerina (EN).

NaturaBelice2017 03In verità, con il progetto della Proloco non si è inventato nulla, si sono solo messi a frutto quei concetti, spesso astratti, che sono riconducibili alle cosiddette sinergie, in questo caso è stato risolutivo mettere in rete un'offerta già esistente, ma precedentemente disorganica. Luoghi comuni a parte, l'iniziativa prende forma principalmente in seguito all'opera di censimento e organizzazione di quelle aziende che sono già in grado di offrire un minimo di servizi ai turisti, realizzando un ambiente esperenziale, tramite cartografie, sito web e app per Android e IOS, tipico degli amanti del bike tourism e/o del trekking. Infatti, secondo le ricerche condotto dagli ideatori, il turismo naturalistico oggi in Europa è in forte espansione per cui, intercettarne anche una piccola fetta potrebbe avere ricadute economiche molto interessanti su tutto l'Alto Belìce. La regione italiana che ha più puntato su questo tipo di turismo è la Toscana con circa il 18% di presenze, seguono a ruota poche altre che oscillano dall'8% della Lombardia al 5,5% della Sicilia per comporre infine quel sorprendente scenario che nel 2013 costituiva ben il 25% delle presenze totali in Italia per un totale di ben 100 milioni di turisti. Ho voluto citare questi numeri per far ben comprendere come il turismo di massa, indirizzato verso il mare e le brevi visite a beni culturali, si sta evidentemente evolvendo in qualcosa di molto più frammentato, variegato e soprattutto specialistico. L'immagine negativa del turista "fai da te", inventata molto anni addietro da una pubblicità di un noto tour operator, oggi è invece diventata una realtà vincente, soprattutto grazie ai nuovi strumenti che internet gli ha fornito. Bisogna quindi riadattare l'offerta in modo da fornire informazioni e servizi immediatamente fruibili al "nuovo" turista, tramite tecnologie moderne e soluzioni intelligenti, ma soprattutto dimenticarsi di poter continuare a "vivacchiare" riempiendo un villaggio vacanze con migliaia di persone che si adattano a condurre la stessa esperienza del vicino di bungalow e magari a mangiare malissimo a causa degli inevitabili pasti a basso costo. La nostra regione, per fortuna, ha tutte le risorse necessarie per poter creare un'offerta nuova, ma soprattutto a 360 gradi grazie a beni culturali, naturalistici ed enogastronomici, sta solo a noi svoltare ed intercettare questo gran numero di "nuovi" turisti che aspettano solo di essere accolti da un territorio che oggi nel mondo non è più valutato solo per sua storia malavitosa la quale, pur continuando ad esistere, è fortunatamente diventata solo una sfaccettatura più o meno folkloristica di un'offerta molto più ampia.

NaturaBelice2017 04Dopo la conferenza stampa, in tarda mattinata, si è svolto un vero e proprio mini tour del territorio svoltosi tramite navetta con sosta all'Agriturismo Ponte Calatrasi, per un assaggio di ricotta calda, e poi con la visita alla Cantina Sallier de La Tour, presso la quale si è infine tenuto un light lunch che ha rifocillato i partecipanti. Partner fondamentale del pranzo è stata la famiglia Marino, titolare a Camporeale del "Baglio A Cannara", un panificio-biscottificio, un ristorante e della cantina Marino Vini, una sorta di esempio  familiare di chiusura di filiera che tramite i sapori e i profumi della gastronomia di quei territori ha espresso anche questo importante aspetto, parte integrante dell'esperienza turistica di quei luoghi. La visita in cantina è stata un'utile occasione per rinfrescare la mia memoria sull'offerta di Sallier de La Tour, la cui gestione è stata trasferita a Tasca D'Almerita ormai da qualche anno. Il tour vinicolo è stato condotto da Costanza Chirivino, appartenente alla famiglia proprietaria dell'azienda, e dall'enologo Mario Licari i quali hanno illustrato ai presenti il lavoro svolto in cantina e negli ottanta ettari di territorio ad impasto medio che oggi ospitano Grillo, Insolia, Nero D'Avola e Syrah che danno poi vita alle rispettive etichette. Differente è invece il La Monaca, una selezione di Syrah con una lunga evoluzione in barrique che costituisce il vino di punta dell'azienda. L'etichetta che però mi ha più interessato è stata quella del Syrah base, nonostante i due anni di affinamento condotti quasi totalmente in acciaio, esprimeva ancora una certa asperità e giovinezza rivelando una complessità che nel fratello maggiore La Monaca, sicuramente più pronto, erano state in parte coperte dal legno. Comunque, vini da approfondire con più calma, con cui fare lentamente amicizia in modo da riuscire ad estrarre tutto il territorio che essi esprimono. Un dato però è certo, questo straordinario comprensorio conferma in pieno la sua vocazione per il Syrah, vitigno alloctono sul quale un'altra cantina, Alessandro di Camporeale, ha d'altronde fondato le sue fortune.

Sito web: www.naturaebelice.it 
App Natura e Belice: https://appsto.re/it/c-zggb.i

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Targa Chef, a Collesano il primo concorso con cibo e motori

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TargaChef2016 01Si è svolto lo scorso 22 Agosto 2016 a Collesano (PA), con inizio alle ore 21:00 nella cornice di Piazza Castello, il primo concorso di cucina contadina sui sapori madoniti, organizzato dall'associazione Sicilia Racing di Collesano in concomitanza con la prima sagra del "pisci r'uovu", pietanza tipica del paese ospitante. Il regolamento prevedeva la partecipazione di concorrenti non professionisti della ristorazione con un piatto della locale tradizione contadina, rispettando l'uso di un paniere di prodotti predefiniti provenienti dai territori attraversati dalla nota competizione automobilistica siciliana chiamata Targa Florio.

TargaChef2016 02Per giudicare gli 11 piatti dei concorrenti è stata convocata una giuria di esperti, variegata in accordo con le professionalità richieste dal compito, in ordine alfabetico c'erano Maurizio Artusi, enogastronomo, Mario Fiorino, docente di cucina dell'Istituto Alberghiero Mandralisca di Cefalù, Mario Indovina, fiduciario Slow Food Palermo, Mariangela Lo Pizzo, biologa ricercatrice e nutrizionista, Angelo Matassa, Executive Chef, Angelo Pizzuto, Presidente del Parco delle Madonie e di ACI Palermo. Gli elaborati sono stati preparati prima dell'esposizione, tranne qualcuno che lo ha assemblato di fronte la giuria, e quasi tutti sono andati sul sicuro, impiegando solo alcuni degli ingredienti previsti dal paniere consentito dal regolamento. I temi più ricorrenti sono stati quelli della trippa con melanzane, erano ben 3, ed il "pisci r'uovu", come già detto la pietanza tipica del luogo preparata con uova, pane raffermo ammollato nel latte, pecorino e aglio, poi fritto in olio evo ed infine servito facoltativamente con salsa di pomodoro. In chiusura, il "pisci r'uovu" è stato protagonista di una degustazione offerta dai volontari che hanno partecipato all'organizzazione della serata.

TargaChef2016 03La giuria ha decretato la seguente classifica finale:

1. Filippo Andolina con il peperone ripieno "Pipi chinu".
2. Rita Federico con il "Picchi pacchi",  ricetta tipica di quei territori a base di verdure simile al "canazzo" palermitano.
3. Rachele Iachetta con un timballo tricolore chiamato "Mulinciani cu pisci r'uovo 'nto mienzu".

Una menzione speciale è stata però attribuita a Gina Iacuzzi, arrivata sostanzialmente quarta con le sue "Sardi a beccaficu", per aver sposato l'onnipresente "pisci r'uovu" con le sarde, ingrediente trascurato da tutti gli altri concorrenti, anche se il mare è presente nel percorso della Targa Florio. Per quanto riguarda il peperone ripieno, ha sorpreso tutta la giuria ed in particolare me, poichè dopo la precisa esposizione di Filippo Andolina, in cui egli ha praticamente attribuito ad ogni singolo ingrediente un territorio, gli abbinamenti di questi hanno deliziato il palato dei giurati, facendo risaltare l'equilibrio di sapori della pietanza e la loro genuinità, ma anche il suo aspetto nutrizionale, insomma, complimenti a Filippo perchè un agente della Polizia Stradale stavolta avrebbe potuto dare lezione a diversi "professionisti" della cucina o presunti tali!

Presenti alla serata, condotta da Robby D'Antoni, c'erano oltre a Giuseppe Ficcaglia di Sicilia Racing, anche il Presidente dell'associazione Giovanni Cuccia, nonchè Angelo Di Gesaro, Sindaco di Collesano, Dario Costanzo, Assessore, Mario Cicero, Presidente Distretto Turistico, nonchè Salvatore Requirez, Dirigente di Servizio presso l’Assessorato Regionale alla Salute, ma in questo caso presente in qualità di storico e scrittore della targa, Nicoletta Salviato, dirigente medico dell'A.R.N.A.S. Ospedale Civico di Palermo e il mitico Nino Vaccarella, ex pilota automobilistico assiduo partecipante della Targa Florio.

Partner dell'evento sono stati oltre al Casale Drinzi di Collesano che mi ha gentilmente ospitato, anche l'Assessorato Turismo Sport e Spettacolo di Sicilia, il Comune di Collesano, MedicAir, UnipolSai Assicurazioni, Agarli Viaggi, il Parco delle Madonie, M.Y.C Madonie Youth Center , l'Istituto Alberghiero Mandralisca di Cefalù che ha curato il servizio e tante altre piccole associazioni e sponsor del territorio che hanno collaborato per l'ottima realizzazione della manifestazione, intelligente e un po' dissacrante per i puristi dei motori, ma sicuramente necessaria per avvicinare questi due settori, tutti insieme per lo sviluppo del paese di Collesano, quindi, un buon lavoro a Giuseppe Ficcaglia ed a tutta Sicilia Racing per la prossima edizione che già si preannuncia più ricca e interessante.

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Come una goccia d'acqua, storie di pizzaioli e territori

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StoriaPizzeTerritorio 01E' risaputo, una goccia d'acqua sgretola anche la roccia, metafora questa che si adatta molto bene al continuo lavoro che la Scuola Maestri Pizzaioli Professional, con la sede di San Giuseppe Jato (PA) guidata dall'istruttore Francesco Bumbello, sta conducendo ormai dall'inizio del 2016 su parte del territorio attraversato dalla SS624, lo scorrimento veloce Palermo-Sciacca.

Francesco oggi, a poco più di 30 anni, è un pizzaiolo navigato, ma solo grazie alle sue esperienze iniziate un bel po' di anni fa. Dopo la scuola dell'obbligo, rispettando la classica gavetta, Bumbello trovò impiego come garzone di una pizzeria d'asporto, fu questo lavoro che gli permise di essere notato da un grande pizzaiolo e quindi di passare prima sotto la protezione professionale di Giovanni Lo Piccolo e successivamente di Serafino Liberante. Poi fu un gironzolare di locali, tra Palermo e provincia, Modena e di nuovo Palermo dove nel 2015 appagò la sua voglia di approfondimento della materia frequentando il corso per pizzaioli tenuto da Giuseppe D'Angelo il quale, sei mesi dopo la conclusione degli studi, gli affidò la nuova succursale della Scuola Maestri Pizzaioli Professional di Piana degli Albanesi.

StoriaPizzeTerritorio 02Sono trascorsi pochi mesi dall'apertura della succursale, prima con sede presso la Pizzeria Kalinikta, poi recentemente spostatasi nella logisticamente più comoda Pizzeria Z'alia di San Giuseppe Jato, ma già ben 7 pizzaioli, con esperienza o del tutto nuovi del settore, hanno avuto il prezioso attestato che li qualifica, grazie al corso di studi particolarmente dettagliato nella teoria e allo stage formativo, eccezionalmente completato da interventi di esperti esterni su argomenti correlati con la pizza come quelli di Vito Lo Greco, sulla tipicità dei prodotti agroalimentari siciliani, e lo spazio a me dedicato su recensioni, gastronomia della pizza e suoi aspetti nutrizionali. La caparbietà di Francesco, unita alla sua capacità di insegnare, ha già quindi iniziato a modificare il panorama della pizza con maturazione dell'impasto nella Valle dello Jato.

I nomi da fare in zona sono parecchi, alcuni usciti dal corso di Bumbello, altri comunque espressione delle collaborazioni tra pizzaioli nell'ambito dell'associazione Scuola Maestri Pizzaioli Professional, ma mi limiterò solo a citare l'appena aperto Expa pizzeria del lago, Orazio Invernale del Freedom Pub, Demetrio Fucarino de El Gordo, Giovanni Laudani, storicamente legato a La Montagnola e poi, il 25 Settembre 2016, nuovo pizzaiolo della nuova gestione della Z'alia, infine Alessandro Traina dell'Apud Jatum , pizzaiolo navigato ma anche nuovo corsista, e Ciro Turdo, in procinto di iniziare il corso, titolare e pizzaiolo di Speedy Pizza, locale solo d'asporto, ma che pratica già maturazione con l'obiettivo di aggiungere impasti a base di grani antichi e sala per ospitare i clienti. Il paese in cui sta maggiormente affermandosi la "pizza buona" è sicuramente San Giuseppe Jato a cui fa buona compagnia Piana degli Albanesi e San Cipirello, dando addirittura vita, da una mia intuizione, a quell'affiatato Pizza Team 624 costituito da Bumbello, Laudani, Traina e, bontà loro, anche da me, di cui spero presto di raccontarvi propositi e prime opere.

StoriaPizzeTerritorio 03I motivi per cui un pizzaiolo o un aspirante tale debba seguire il corso, anche se esperto e di lungo corso, l'ho scritto e detto più volte, sono molteplici, spesso questi professionisti ottengono risultati discreti, ma empiricamente, cioè con esperimenti che gli permettono di mettere a punto un impasto accettabile, senza però conoscerne i meccanismi e i segreti di esso, un corso invece permette di diventare padroni della materia e di svincolarsi dalla routine, iniziando ad inventare, correggere con cognizione di causa eventuali errori, ma soprattutto di rimanere sulla cresta dell'onda con le varietà di impasti a cui i clienti sono ormai abituati. Da non trascurare c'è anche il fattore nutrizionale e salutistico delle pizze, altro argomento a cui il consumatore oggi presta sempre più attenzione, identificabile principalmente in due caratteristiche: ingredienti della farcitura di buona qualità e indice glicemico più basso possibile. Conoscere le materie prime impiegate, dalle farine alle mozzarelle, attuare una maturazione dell'impasto o meglio impiegare i grani antichi siciliani moliti a pietra con un indice glicemico più basso e senza micotossine, rispetto alle farine doppio zero estremamente raffinate, costituisce sicuramente un plus ancora oggi relativamente diffuso. Il pizzaiolo del XXI secolo si deve pertanto professionalizzare al massimo per non rimanere fuori dai giochi e per aumentare il valore del suo lavoro.

In zona, per Bumbello, di lavoro da fare c'è ancora molto e altrettanto ce n'è già e ne ne sarà anche per me, ovviamente sotto forma di recensioni, perchè più la pizza diventa "buona", più CucinArtusi.it dovrà impegnarsi, ma ormai è questa la mia missione, iniziata solo nel Gennaio del 2013 su sprone dell'istruttore della PIA Peppe Sansone con la rubrica "Pizza buona si può", ma che ha in pochi mesi, cambiato il volto della pizza di Palermo e che oggi, grazie alla Scuola Maestri Pizzaioli Professional con il Maestro Bumbello, sta replicando il successo nella provincia, la strada è ormai segnata, bisogna solo percorrerla.

 

Il Tabacco è tornato in Sicilia

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TabaccoCerda 01Dopo essermi occupato di frutta tropicale siciliana, qualora ce ne fosse ulteriormente bisogno, ecco un'altra prova a testimonianza che in Sicilia si può veramente coltivare di tutto, in questo caso il tabacco, ingrediente base per la produzione dei sigari. In verità quella del tabacco è una coltura non nuova sull'isola poichè era già praticata fino a 150 anni fa, poi con le vicissitudini a tutti ben note, unità d'Italia con conseguente annichilimento delle attività commerciali dell'isola, i contadini dell'epoca abbandonarono la coltivazione. Oggi è grazie a Federico Marino, dell'omonima tabaccheria palermitana, insieme a Giuseppe Scordato di Bagheria della Cooperativa La Campagnola, un amico conosciuto tramite relazioni di parentela, che il tabacco è tornato in Sicilia, attività iniziata l'anno scorso come test con ben 16 ettari di estensione poi ridotte a 6 di cui 4 di varietà Kentucky e 2 di Barley, lo scopo è quello di produrre il primo sigaro totalmente siciliano. E stato così che lo scorso 1 Ottobre 2016 ho avuto il privilegio di visitare la piantagione di tabacco di Federico e Giuseppe, recandomi a Cerda (PA), paese noto per le coltivazioni di carciofi e prossimamente speriamo anche per le... piantagioni di tabacco!

Arrivato a questo punto, sarà meglio illustrare alcune fasi della produzione, attività propedeutica a capire meglio anche il mondo dei sigari.

TabaccoCerda 02La pianta in questione è molto prolifica di semi, ma essi, essendo piccolissimi, vanno prima incapsulati, di questo trattamento si occupano alcune aziende canadesi verso il mese di Gennaio di ogni anno. In seguito, i semi vengono sistemati a germinare e di li a poco nascono le prime piantine, ma bisogna aspettare le prime 3 o 4 foglioline prima dell'immissione sul mercato, ciò avviene di solito verso Aprile/Maggio. Ed è proprio quello il periodo in cui esse vengono finalmente messe a dimora nei campi in cui rimarranno fino a Settembre/Ottobre, periodo in  cui viene eseguire il raccolto. Le foglie di tabacco sono molto larghe, la pianta è generosa e si adatta bene a diversi climi e terreni, una volta raccolte vengono, per comodità di lavorazione, cucite tra di loro tramite una macchina che esegue la "filzatura", formando così dei filari che vengono poi stesi al coperto. Durante questa importantissima fase avviene la fermentazione e l'essiccamento, più o meno guidate da condizioni di umidità e temperature specifiche. Infine, le foglie vengono selezionate e affidate alle mani della sigaraia di turno, prima di affrontare l'ultima fase relativa alla stagionatura, variabile in base alle caratteristiche che deve possedere il prodotto finito.

TabaccoCerda 03E' incredibile come l'attività di fermentazione sia importante in così tanti aspetti della vita dell'uomo, essa interviene nella trasformazione di pane, pizza, vino, birra e altri alimenti, ma parimenti anche nel tabacco in cui riesce creare profumi e sapori caratteristici. Approfondire l'aspetto microbiologico della fermentazione del tabacco penso potrebbe essere la nuova frontiera del fumo lento e di qualità, esattamente come si è fatto finora con gli alimenti, soprattutto con il vino in cui impiegare il solito Saccharomyces cerevisie oggi non è più un obbligo.

Federico Marino trasmette orgoglioso ed entusiasmo quando parla della piantagione, mentre Giuseppe Scordato la guarda con riverenza e amore, indubbiamente è lui che passa più tempo con le piante poichè segue da vicino l'aspetto agronomico, ma una cosa è certa, entrambi stanno creando qualcosa di unico utilizzando solo le proprie forze, qualcosa che farà parlare di se e della Sicilia, considerando le prime impressioni ricevute da esperti del settore che hanno già visitato la piantagione, come ad esempio Gabriele Zippilli, presente alla visita, impressioni che hanno lodato le particolari caratteristiche organolettiche delle foglie ancora grezze. Inoltre, considerando che in Sicilia è abbastanza facile coltivare in biologico, la piantagione di tabacco visitata è stata condotta senza l'uso di fitofarmaci di sintesi, anche se non è mai stato richiesta la certificazione bio.

TabaccoCerda 04Io stesso ho provato una fumatina "cruda" grazie ad un sigaro "avvoltomi" in modo empirico e veloce da Federico, in cui ho ritrovato al massimo quella parte erbacea dei sigari che in un prodotto finito è ormai molto ridotta. I profumi del tabacco grezzo si potevano sentire già entrando nella stalla adibita a magazzino, erano di the verde, camomilla e vaniglia, ma durante la fumata si sono sprigionati sapori insospettabili sotto una leggera affumicatura sono apparsi quelli che richiamavano vari sapori erbacei, ma anche more e altri frutti di bosco. In tarda mattinata non è mancata anche la mano esperta della sigaraia Mihaela, moglie di Zippilli, che ci ha dimostrato come "avvolgere" un sigaro italiano, oggetto del video da me pubblicato qui di seguito.

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TabaccoCerda 05La visita a cui ho partecipato, era stata inserita in una più ampia manifestazione organizzata dal gruppo Aficionados Cigar Club con la collaborazione di altri gruppi siciliani ed è stata una buona occasione per invitare importanti ospiti come il già citato Gabriele Zippilli di CTS, Compagnia Toscana Sigari, coltivatore e autore del Mastro Tornabuoni, nonchè da Simone El Zap Fazio, ideatore e autore di Cigar Blog... Sigari e Dintorni , importante sito web italiano dedicato al fumo lento ed infine, ospite d'onore, Robert Ibarra, della Tabacalera Ibarra & Hijos, produttore dominicano di origini cubane in tour in Italia in procinto di entrare nel nostro mercato.

Nel pomeriggio, presso la Scogliera Azzurra di Isola Delle Femmine (PA), borgata marinara alle porte di Palermo, gli incontri si sono evoluti con le fumate di un Mastro Tornabuoni e di un Torpedo Don Ibarra, ma questa è un'altra storia che leggerete nel mio prossimo articolo, oppure qui dalla parole di Simone El Zap Fazio.

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Yann Duytsche, un pasticcere francese in Spagna

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CappelloYann 01Con la pasticceria francese all'apice mondiale, un corso con un suo valido esponente, per giunta legato alla Valrhona, leader mondiale del cioccolato, mi ha praticamente obbligato a fare la video intervista e relativo album fotografico. Pertanto, lo scorso 4 Ottobre 2016, mi sono recato presso la Cappello Pastry Academy di Palermo, organizzatrice del corso di cui sopra, per conoscere Yann Duytsche (si legge duitch all'inglese), un pasticcere francese che 12 anni fa ha scelto Valrhona per il cioccolato, la Spagna come seconda casa e Barcellona per aprire la sua pasticceria "Dolc Par".

Durante il corso, Yann si è dimostrato particolarmente cordiale e scherzoso, nulla a che vedere con lo stereotipo del pasticcere francese rigido e serioso, inoltre, parlando almeno tre lingue, francese, spagnolo e italiano, è stato divertente anche dal punto di vista linguistico, facilitando così la mia video-intervista, realizzata tutta in italiano.

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CappelloYann 02Quindi galeotto fu lo zio di Yann, anche lui pasticcere, colui che instillò nel nostro giovanissimo la passione per il difficile lavoro di pastry chef. Yann ha una interessante concezione universalistica della pasticceria, secondo lui quest'arte, con le dovute personalizzazioni locali, alla fine è uguale dappertutto, gli ingredienti son sempre gli stessi. Tra i dolci siciliani, a Yann piace tanto il cannolo, senza nulla togliere a quelli del Maestro Cappello, a saperlo prima lo avrei portato in un posticino a Piana degli Albanesi, poi ama i frutti di mare, molluschi e crostacei sono la sua passione, ma il dolce che preferisce di più mangiare è la Torta Passione, una sua creazione a base di cioccolato caribe 66%, crema di maracuja e pan di spagna sacher, guarda caso tra gli elaborati del corso è quella che mi è piaciuta di più, sicuramente la più equilibrata e con maggiori sfumature gustative, bravo Yann, buon sangue di pasticcere francese non mente!

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A Palermo, il panettone del campione del mondo Fabrizio Donatone

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Donatone 04Con Fabrizio Donatone si completa il team dei campioni del mondo di pasticceria 2015, ospitati quest'anno presso la Cappello Pastry Academy. Il corso sui lievitati tenuto dal Maestro Donatone si è svolto il 17 e 18 Ottobre 2016 e insieme alla consulenza che Fabrizio già da qualche tempo svolge presso una pasticceria catanese, secondo me, ha sancito la nascita di una nuova "scuola del panettone" in Sicilia, ultima arrivata dopo quella di Toti Catanese, apripista del panettone della nostra isola, ma anche di Achille Zoia e Rolando Morandin, grandi lievitisti che hanno diffuso da noi i loro metodi di lavorazione del "dolce più difficile da realizzare", come ama definirlo Iginio Massari, uno dei suoi più grandi interpreti.  Durate il corso si è parlato anche di vaso-cottura applicata al panettone, non affrontando la tecnica, ma sicuramente stuzzicando la mia curiosità. 

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INTERVISTA A EMMANUELE FORCONE
Donatone 03INTERVISTA A FRANCESCO BOCCIA

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La vita professionale di Fabrizio Donatone è stata molto fortunata, perchè poter svolgere dei lavori scaturiti dalle proprie passioni non sempre è realizzabile, egli ha infatti iniziato a frequentare il laboratorio di pasticceria dei suoi zii sin da piccolino e poi, dopo gli studi artistici, ha messo in pratica anche la scultura del ghiaccio e del cioccolato. La sua vera passione è però costituita dai lievitati, amore probabilmente trasmesso da Iginio Massari, uno dei suoi maestri e mentore. Fabrizio è ovviamente attivo anche nel mondo dei concorsi, in particolare, il team che ha vinto la coppa del mondo di pasticceria, è nato dall'amicizia tra lui ed  Emmanuele Forcone, mago della lavorazioni in zucchero, e completato dall'abilità di Francesco Boccia, fuoriclasse del cioccolato. Ovviamente a Fabrizio Donatone piace preparare panettoni, ma anche mangiarli, invece, per quanto riguarda il salato, egli predilige il pesce crudo, i molluschi e i crostacei, insomma, mentre nella pasticceria ha preferito i dolci cotti con l'uso del forno, in luogo dell'ormai dilagante moda di produrre torte con il "freddo", a tavola preferisce non cuocere il pesce! A tutti coloro che desiderano conoscere più approfonditamente Fabrizio, consiglio di guardare la video-intervista che mi ha gentilmente rilasciato alla fine del suo corso palermitano. 

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Donatone 5Il corso è stato realizzato con la collaborazione del Team Massari, Agrimontana e Domori, queste ultime due aziende italiane, guarda caso, sono coinvolte nella produzione dei panettoni tramite i propri ingredienti. Agrimontana è nota per aver da sempre prodotto frutta candita di eccellenza, il segreto risiede nell'impiego di ingredienti freschi, conservati esclusivamente con la tecnica del freddo, scelta selezionando le zone di coltivazione italiane più vocate, infine trasformata impiegando tecniche di lavorazione artigianale senza l'uso di conservanti (solfiti), aromi e coloranti. Agrimontana è quindi sinonimo di qualità, Giuliano Iannone, il suo agente commerciale responsabile per l'area sud, sogna infatti una cassata siciliana in cui finalmente la frutta candita sia "mangiabile", opponendosi all'abitudine di toglierla a causa della sua sgradevolezza. Ovviamente, tutto ciò ha un costo maggiore per il pasticcere, ma in questo caso entra in gioco la mia regoletta: "più costo, ma più resa", in sostanza, spesso pagare di più un ingrediente può corrispondere ad usarne una quantità minore, grazie alla sua complessità e intensità di sapore, abbassando così il costo reale, questo è esattamente il caso dei cubetti di scorza di arancia che ho personalmente assaggiato, potendo così constatare l'esplosione al palato del loro gusto, variegato in uno spettro tipico dell'agrume fresco, ingrediente ideale per i panettoni.

Per quanto riguarda Domori, altro importante nome del cioccolato mondiale, la sua disponibilità ha reso possibile la realizzazione, durante il corso, anche del panettone al cioccolato, in questo caso preparato con l'Arriba Nacional 56%, un tipico caraibico continentale proveniente dall'Equador. I profumi ed i sapori che esso ha sprigionato, morbidi e suadenti, mi hanno ricordato nocciole, amarena, burro ed una leggerissima e fresca acidità. Nonostante la Domori produca esclusivamente cacao fine, come il Criollo e il Trinitario, le due varietà migliori e più rare al mondo, il Nacional in verità è un Forastero, ma è l'unico ad essere iscritto nell'elenco dei cacao fini ed è prodotto esclusivamente in Equador.

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Tutti pazzi per il lievito madre, come e perchè

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LievitoMadre 01Innanzi tutto, vediamo con chi avremo a che fare durante l'esposizione della mia teoria e delle ricerche che ho condotto durante gli ultimi due anni. Il protagonista è il lievito "madre", che in verità dovrebbe chiamarsi "naturale" o meglio ancora "impasto acido", ma che per convenzione continuerò a identificare come "madre" così come fan tutti. Esso ormai sembra diventato la panacea di tutti i mali della lievitazione, innescando dinamiche commerciali spesso ingiustificate, soprattutto nei prezzi, dai prodotti da forno salati fino ad arrivare ai panettoni, prodotto di cui esso è costituente importantissimo. Basta dichiararne l'uso per santificare un prodotto da forno a discapito di tante altre ben più importanti caratteristiche, ormai totalmente trascurate, allora io dico: attenzione, siamo veramente sicuri che il lievito madre sia così straordinario e che sia impiegato correttamente? Complice di questo mio articolo è stata una mia teoria, rivelatasi non corretta, ma giustificata, che però ha fatto emergere una serie di altre informazioni che possono essere molto utili all'uso e comprensione del lievito madre. Ecco quindi i fatti, scientificamente approfonditi grazie alla gentile collaborazione di alcuni professionisti del settore in questione.

LievitoMadre 02Il nostro guest-star invece è il lievito chiamato Saccharomyces cerevisiae, utilizzato da secoli nella fermentazione di vino, birra e nel caso che ci riguarda da vicino nella panificazione. Le sue cellule hanno un diametro di 5-10 micrometri e si moltiplicano (cosa diversa dalla riproduzione che prevede riarrangiamento genico) attraverso un processo di gemmazione, pertanto ogni individuo sarà uguale al suo precedente. Allevarlo è facile, ma in qualità di "eucariote", esso presenta la complessità della struttura interna di piante e animali, in sostanza è uno dei microorganismi più simili al patrimonio genetico dell'uomo, a differenza dei batteri, individui "procarioti", molto più semplici. Il Saccharomyces cerevisiae è allevato industrialmente e poi compresso e commercializzato in cubetti o in forma liofilizzata. I ceppi utilizzati oggi sono particolarmente resistenti, ma hanno pur sempre dei range ambientali ottimali, superati i quali, essi vengono inattivati o peggio muoiono. Il Saccharomyces cerevisiae metabolizza zuccheri in presenza o in assenza di ossigeno, gradisce temperature intorno ai 18-24 gradi, una buona umidità, ma soprattutto un pH neutro-basico, quindi maggiore di 7, comunque non troppo acido. Il nostro lievito è pertanto specializzato nel cibarsi di zuccheri semplici e da questi produrre etanolo ed altri composti alcolici, che poi evaporeranno, soprattutto durante la cottura del nostro impasto, ma anche della preziosa anidride carbonica, un gas che gonfierà i nostri lievitati si spera sempre in modo superbo!

Ricordo a tutti che l'acidità corrisponde ai valori di pH misurati alla temperatura di 25 gradi centigradi come nella seguente tabella: 

  • Acido se il pH è < 7
  • Neutro se il pH è = 7
  • Basico se il pH è > 7.

LievitoMadre 03In seguito alle mie esperienze conseguite con le numerose pizze che ho iniziato a degustare sin dal Gennaio 2013, per via della rubrica Pizza buona si può, mi sono reso conto di quanto in definitiva poco influisca l'uso del lievito madre nella complessità e fragranza di profumi e sapori dell'impasto. Unendo questi miei dubbi sensoriali con l'esperienza maturata in seguito ad un workshop sulla microbiologia dei lieviti svoltosi nel 2011 a cura dell'allora IRVV, Istituto Regionale Vite e Vino oggi IRVOS, nel quale venivano illustrate alcune ricerche comprovanti la contaminazione delle fermentazioni spontanee del mosto da lieviti commerciali, sono arrivato ad elaborare una mia teoria sulla potenziale contaminazione che può avvenire a causa di trasferimento di alcune quantità di Saccharomyces cerevisiae, anche infinitesimali, dall'ambiente di lavoro al lievito madre.

Normalmente, il lievito madre è composto da tanti microorganismi che in competizione o in mutua assistenza, dovrebbero donare quell'insieme di fragranti caratteristiche tanto vantate ad un impasto, dolce o salato che sia. Le reazioni che avvengono all'interno dell'impasto acido, e poi durante il suo uso all'interno dell'impasto finale, sono molto complesse, le colture microbiologiche in esso contenute possono modificarsi repentinamente con una semplice variazione di temperatura o di pH.

LievitoMadre 04Per approfondire i meccanismi che regolano le attività del lievito madre, ho interpellato, in ordine alfabetico, Nicola Francesca, Giancarlo Moschetti e Luca Settanni, docenti e ricercatori di microbiologia presso il Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali dell'Università di Palermo, è quindi emerso uno scenario del tutto diverso da quello da me ipotizzato, secondo il quale la biodiversità attribuita al lievito madre è stata dimostrata da numerose ricerche scientifiche e grazie a questa, numerose componenti volatili aromatiche caratterizzano veramente l'impasto. Intendiamoci, anche nel lievito di birra commerciale è presente una sorta di biodiversità, ma relativa ai diversi ceppi di Saccharomyces cerevisiae quindi di una sola specie e di un bel po' di batteri lattici. Inoltre, si può affermare che durante il processo di  lievitazione, le azioni condotte dai batteri sono più importanti di quelle dei lieviti, infatti in un lievito madre sano il rapporto tra i primi ed i secondi è di 100:1, condizione ottimale per ottenere i risultati finali migliori. D'altronde, è anche vero che un lievito madre di poco più di 1 mese può svolgere una buona attività e avere una rilevante biodiversità, e quindi trasferire all'impasto delle caratteristiche che possono essere uguali a quelle di un lievito madre di 100 anni! Questo perché l'equilibrio stabile tra le diverse specie microbiche si raggiunge dopo circa 40 giorni.

LievitoMadre 05Approfondendo la mia teoria sulla contaminazione del lievito madre, ho scoperto che essa è sempre all'ordine del giorno, non solo con il Saccharomyces cerevisiae, ma anche e soprattutto con un'infinità di altri lieviti e batteri che vivono nell'ambiente. Quella che io ho chiamato "contaminazione", come specificatomi dal Prof.Moschetti, sarebbe però più corretto indicarla con il termine di cross-contamination è può anche essere propedeutica ad un miglioramento dell'impasto acido, sempre a patto che esso sia mantenuto sano e quindi con il giusto pH, compreso tra 3,8 e 4,4, in sostanza le parole d'ordine sono: "pH acido ed equilibrio microbiologico".

E' invece assolutamente senza fondamento scientifico il mito dell'uso dei vari alimenti caratterizzanti il lievito madre, come ad esempio il famoso sterco o il succo d'uva o altra frutta, essi infatti introducono vere e proprie contaminazioni, spesso deleterie, o addirittura zuccheri che alimentano alcune famiglie di microorganismi andando a pregiudicare l'equilibrio del nostro impasto acido. In sostanza, il disaccaride maltosio alimenta i batteri, mentre gli altri zuccheri sono utilizzati dai lieviti, in base a questa semplice regola sarebbe molto meglio non aggiungere mai nessun tipo di zucchero per non favorire una popolazione a discapito di altre, pertanto bisogna impiegare solo acqua e farina per la generazione e poi per il rinfresco. Se a causa di contaminazioni o per altri motivi il pH dovesse scendere sotto 3,8 le popolazioni microbiche si sbilancerebbero, causando una predominanza dei batteri ed una diminuzione dei lieviti, per fortuna però, in breve tempo le popolazioni stesse concorreranno a ripristinare l'equilibrio, riportandolo ai valori ottimali. Diverso è invece il caso di superamento del limite di pH 4,5, in questo caso avremo una predominanza dei lieviti sui batteri, ad esempio a pH 6 i batteri lattici iniziano a morire, pregiudicando le caratteristiche finali del prodotto da forno che comunque lieviterà, ma non potrà mai avere le stesse caratteristiche di uno preparato con un lievito madre sano, poichè come già detto, durante il processo di lievitazione il ruolo dei vari batteri è più importante di quello dei lieviti.

Ecco una nuova tabellina aggiornata con pH e conseguente variazione della popolazione microbiologica: 

  • pH inferiore a 3,8: progressiva predominanza dei batteri lattici
  • pH tra 3,8 e 4,4: lievito sano con rapporto batteri/lieviti di 100:1
  • pH tra 4,4 e 5: progressiva predominanza dei batteri lattici
  • pH tra 5 e 6: abbassamento del rapporto 100:1 con progressivo aumento dei lieviti

Pertanto, il pH di un impasto raggiungerà al massimo il valore di circa 6, rimanendo quindi sempre nell'ambito acido, ciò è principalmente dovuto alla farina che al massimo è a 6,2, conseguentemente possiamo affermare che non sarà mai neutro ne basico, più avanti nel testo vedremo cosa accade in dettaglio.

LievitoMadre 06Giuseppe Russo, biologo e nutrizionista del Consorzio Gian Pietro Ballatore, ente regionale che si occupa della ricerca scientifica e del monitoraggio della filiera granicola siciliana, da me interpellato in merito, mi ha spiegato, come già detto, che un lievito sano o equilibrato non può soffrire di contaminazione grazie al suo pH corretto di circa 3,8 - 4,4, poichè con questa acidità i microorganismi contenuti nel lievito di birra, come già detto in genere una selezione di ceppi di Saccharomyces cerevisiae, non riescono a sopravvivere, rimanendo sopraffatti dagli altri microorganismi, già presenti nel lievito stesso, dopo solo una manciata di minuti. Questo in realtà è un meccanismo un po' più complesso, ma è comprovato dalle ricerche esposte nei testi appositamente consultati dal Dott. Russo, in cui si illustra come il S.cerevisiae è sensibile al pH acido tipicamente sotto il 4, questa condizione è governata dai cataboliti (prodotti residui della demolizione dei nutrienti da parte di organismi viventi) dei batteri presenti in grande numero nel lievito, sempre con quel famoso rapporto di 100 a 1, i quali producendo acido acetico ed altre sostanze, creano un ambiente acido sfavorevole al Saccharomyces cerevisiae.

LievitoMadre 07Pertanto, come già detto, un lievito madre non in perfetta salute, di solito con pH maggiore di 4,5 quindi con un ambiente favorevole all'attecchimento del Saccharomyces cerevisiae, è da quest'ultimo contaminabile, l'impasto acido si potrebbe pertanto trasformare in una gigantesca coltura di lievito di birra, vanificando tutti i nostri sforzi per nutrire e poi utilizzare un lievito microbicamente complesso come quello che viene comunemente definito madre. In sostanza, riepilogando, al di sopra del pH 7, definito neutro, avrò una condizione basica favorevole al S.cerevisiae, mentre invece, scendendo sotto il 7, man mano che l'impasto acidifica, avrò un'ambiente a lui poco gradito che lo può addirittura portare alla morte. 

Il lievito naturale è da considerare come una sorta di "tamagotchi", per chi non lo sapesse questo era un giochino elettronico "simulatore di vita", di moda in Italia a fine anni '90, in cui un animaletto alieno virtuale andava curato tutti i giorni, alimentandolo, coccolandolo e sgridandolo, proprio come un figlio, anche il lievito madre va regolarmente curato e non è infrequente il caso in cui il suo gestore instauri un rapporto filiale con esso.

Le conclusioni di queste mie ricerche sono sostanzialmente sei:

  1. Il lievito madre effettivamente conferisce al prodotto finale delle caratteristiche organolettiche migliori rispetto alla lievitazione con quello di birra, ma a patto che esso sia stato ben rinfrescato e goda di ottima salute (pH tra 3,8 e 4,4).
  2. La "contaminazione" con il Saccharomyces cerevisiae avviene veramente, però insieme ad esso possono passare anche tante altre specie di batteri e lieviti, ma per fortuna ci viene in aiuto il pH corretto, un lievito sano ha le capacità di riequilibrarsi e quindi di volgere a proprio favore le contaminazioni dall'esterno (cross-contamination).
  3. Vengono radicalmente sfatati due miti: il primo è quello dello sterco di cavallo, o altro caratterizzante, che aggiunto durante la prima preparazione dovrebbe conferire peculiarità organolettiche e di durata miracolose al lievito madre, invece è meglio non aggiungere nulla, poichè si potrebbe pregiudicare l'equilibrio microbiologico dell'impasto acido, la farina contiene già i microrganismi necessari a generare un buon lievito madre, in verità anche l'acqua, ma non possiede batteri lattici, importantissimi nei processi che ci riguardano.
  4. Il secondo mito è quello dell'età del lievito, infatti le popolazioni microbiologiche, purchè in equilibrio, possono godere di grande biodiversità sia dopo 100 anni che dopo 40 giorni dalla prima preparazione di un impasto acido.
  5. Bisogna considerare che è impossibile avere la certezza di possedere un impasto acido sano testandolo solo con un esame olfattivo o gustativo, l'unico modo per essere certi della sua salute è quello di controllarlo con un misuratore di pH, oggi acquistabili con cifre alla portata di tutti.
  6. Pertanto, le scarse differenze tra le pizze lievitate con il "madre" e quelle con il lievito di birra, da me riscontrate a livello organolettico, sono probabilmente dovute al fatto che praticamente quasi tutti fanno uso del cosiddetto "starter", costituito da una piccola aggiunta di lievito di birra, innescando in definitiva una lievitazione con il Saccharomyces cerevisiae, necessario forse a causa di un lievito naturale non sano e quindi bisognoso di aiuto. In questo caso, comunque, un miglioramento si ottiene, ma limitato all'alveolatura, in sostanza è come impiegare una biga, ovvero quello che comunemente viene chiamato "impasto indiretto", con tutto l'apporto dei suoi benefici.

I circa due anni che mi hanno visto impegnato nella raccolta e nello studio delle informazioni su esposte, mi hanno portato a contattare diversi specialisti di microbiologia e del settore gastronomico, pertanto devo ringraziare, in ordine di interpello, il già citato Giuseppe Russo del Consorzio Gian Pietro Ballatore, nonchè l'importante contributo di Nicola Francesca, Giancarlo Moschetti e Luca Settanni, con un grazie particolare a quest'ultimo per l'assistenza prestatami nella stesura dell'articolo, docenti e ricercatori del Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali dell'Università di Palermo, ma anche tutti coloro che dal fronte della pasticceria e pizzeria mi hanno aiutato a capire meglio sull'argomento: Toty Catanese, pasticcere lievitista, Pino Lo Faso, titolare e pasticcere della Pasticceria Delizia di Bolognetta (PA), Salvatore Cappello, titolare e pasticcere della Pasticceria Cappello di Palermo, Giuseppe Sparacello, titolare e pasticcere della Pasticceria Dolci Tentazioni di Castronovo di Sicilia (PA), Giuseppe D'Angelo, Presidente e Istruttore della Scuola Maestri Pizzaioli Professional di Palermo.

Le foto sono tutte provenienti dall'archivio di CucinArtusi.it 

 

A Capizzi, storie di cani, tartufi, uomini e suini

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TartufoCacciaCapizzi2016 01L'appuntamento tra i boschi di Capizzi (ME), alla ricerca del tartufo siciliano, era stato fissato per il 23 Ottobre 2016, ma le avverse condizioni atmosferiche lo hanno spostato allo scorso 4 Dicembre, periodo non ideale per il prezioso fungo, ma che comunque poteva essere foriero di belle sorprese, così come poi è stato.

L'incontro, organizzato da Nino Parasuco, macellaio del ridente paesino montano, si è svolto con l'indispensabile disponibilità di Peppino Russo, appassionato cavatore e papà del tartufo di Capizzi, da lui casualmente scoperto circa 8 anni fa in una buca scavata da un maiale selvatico, e fautore dell'omonima sagra iniziata nel 2013. Però prima di parlarvi degli uomini, dovrò iniziare dai cani perchè in definitiva, nonostante l'esperienza del cavatore/addestratore, è il naso del cane che fa la differenza ed è lui che lo cava materialmente.

TartufoCacciaCapizzi2016 02Il primo si chiama Briciola, un nome molto comune tra i cani di piccola taglia, infatti il nostro tartufato amico è una meticcia di volpino, acquistata da Peppino Russo nel 2012 è stata sin da subito addestrata al fine di sostituire Jack, il suo primo cane da tartufi, un altro meticcio di volpino. Peppino è convinto che i cani puri di razza non siano i più adatti per la ricerca del prezioso fungo. Oggi Briciola è un cane ricercatore molto esperto e felice di scorrazzare tra i boschi per aiutare il suo amico Peppino a cavar tartufi.

Il secondo protagonista di questa storia si chiama Lilla, un'altra femmina, figlia di Briciola, molto più giocherellona e spensierata, per lei il tartufo è proprio un gioco, ma sta imparando in questi giorni, quella del 4 Dicembre è stata solo la quarta uscita, ma già prolifica, evidente segno della stretta relazione che lega Peppino ai suoi animali. Altri due cani già addestrati non hanno partecipato alla mia gita di "caccia", si tratta di Macchia, un Bracco-Pointer, e di Sheila, sorella di Lilla.

TartufoCacciaCapizzi2016 03Dopo questa doverosa presentazione di quelli che sono stati i cani-cavatori del tartufo di Capizzi, posso passare al loro amico Peppino Russo, descrivendo così un evidente caso di appassionato della natura. Si, perchè Peppino cerca tartufi principalmente perchè amante del contatto con la natura ed è sostenitore e promotore del suo territorio capitino. Negli ultimi anni, Peppino si è dedicato alla coltivazione di molti hobbies, tra i quali figura, oltre a quello della raccolta dei funghi, anche l'allevamento di conigli giganti, la pesca nei laghi e l'allevamento e l'incrocio di galline di varie razze che puntualmente poi lo premiano con delle particolarissime uova dal colore celeste, verde o cioccolato, piuttosto che a bassissimo contenuto di colesterolo.

TartufoCacciaCapizzi2016 04"Suinis in fundo", concedetemi questa licenza "poetica" perchè adesso è arrivato il momento di Nino Parasuco, titolare dell'omonima macelleria. Dovete sapere che a Capizzi, come d'altronde in altre comunità ad economia agricola, l'ho già scritto più di una volta, il suino selvatico, più o meno nero, è di casa, attorno a lui una volta ruotava una vera economia della sopravvivenza in cui esso rappresentava una fonte importante di sostentamento e di cui non si buttava via nulla. Oggi, in parte, è ancora così, è quindi rimasta quest'abitudine ad allevare allo stato semi brado e consumare il suino, ma sempre riconoscendo in esso una funzione fondamentale, ciò ricorda molto il rapporto simbiontico e di rispetto che esisteva tra gli indiani d'America e i bisonti. Ovviamente stiamo parlando di animali, selvatici o in una sorta di "libera cattività", alimentati in modo naturale, spesso con ghiande, come ancora oggi viene effettuato presso l'allevamento di Piazza Armerina (EN) appartenente ai parenti e quindi anche ai fornitori di Nino.

Come ho già scritto diverse volte, a prescindere dalla razza, l'alimentazione in un animale, i cui sottoprodotti o le carni sono destinati al consumo umano, è di fondamentale importanza. Nel caso del suino, già solo praticando un'alimentazione naturale, si riesce ad aumentare la quantità di acidi grassi monoinsaturi, come ad esempio l'acido oleico, si proprio quello dell'olio extravergine d'oliva, e di acidi grassi polinsaturi a volte superando i temibili saturi, come d'altronde dimostrato nel suino nero dei Nebrodi, in seguito al monitoraggio delle razze mediterranee, durante la presentazione dei risultati del Progetto Qubic. In sostanza è come se le carni che potrebbero causare dei danni alla salute, ad esempio con l'aumento del colesterolo, contenessero esse stesse un antidoto e controbilanciassero i propri effetti negativi.

TartufoCacciaCapizzi2016 06Dopo una lauta colazione mattutina di benvenuto offerta e organizzata da Nino Parasuco e denominata "antigelo sul cofano del Pajero", scaturita dalla necessità di contrastare i 6 gradi ambientali di quella giornata e costituita da salumi casalinghi rigorosamente senza conservanti e vino autoprodotto, sono finalmente iniziate le ricerche del tartufo. Durante la "caccia" ho imparato da Peppino Russo che esistono le tartufaie, cioè zone ben definite di bosco in cui si formano determinate varietà di tartufi, essi si riproducono tipicamente ogni anno con pezzature che variano dalla dimensione di una nocciolina del peso di circa 10 grammi, fino all'arancia del peso di circa 350 grammi, almeno in base ai ritrovamenti finora avvenuti.

TartufoCacciaCapizzi2016 07La prima tartufaia visitata è stata quella dell'Uncinatum, una delle varietà più ricercate che è possibile cavare nel territorio di Capizzi. In Sicilia, essendo esso relativamente difficile da trovare, il suo prezzo può arrivare anche a 500-600 Euro al Kg. La seconda tartufaia è stata quella del Brumale, assimilabile più o meno allo stesso valore dell'Uncinatum, ma meno richiesto dal mercato, nonostante le sue caratteristiche organolettiche siano molto simili. Nonostante la distanza e le condizioni scoscese del terreno sono comunque riuscito a registrare qualche secondo di video che vi propongo qui di seguito.

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Durante la ricerca ho visto che in definitiva è il cane che "cava" il tartufo, portandolo poi al suo addestratore, ecco perchè prima ho impiegato il termine cane-cavatore, in sostanza è lui che fa tutto il lavoro, pertanto bisogna cercare di non disturbarlo con rumori o odori, infatti durante la mia gita Peppino andava avanti con i cani ed io, con il resto della compagnia ero al seguito, il problema per me è stato quello di riuscire ad avvicinarmi repentinamente per foto e video prima che il cane prendesse la sua preda! Due sono i maggiori avversari nella ricerca del tartufo, il primo è sicuramente il maiale selvatico, molto ghiotto del fungo sotterraneo, il secondo purtroppo è l'uomo, cioè il cavatore improvvisato, senza rispetto per la natura, che scava e che non copre il buco lasciato, come invece effettua sempre Peppino. Infatti, in caso di buca con ritrovamento, ricoprendola si favorisce il reimpianto delle le spore, questo agevola un'eventuale nuova riproduzione. Il migliore animale cavatore resta però il maiale, difficile da addestrare e vietatissimo in alcune regioni d'Italia per la distruzione del territorio che esso provoca con le sue buche incontrollate.

Nei boschi di quercia e faggio di Capizzi si trovano anche i bianchi Rufum e Oligospermia, non commerciabili, poi il nero Scorzone e il bianco Borchi, cioè il cosiddetto Bianchetto, particolarmente richiesto poichè collocabile subito sotto il bianco pregiato d'Alba, dal prezzo simile o superiore all'Uncinatum. in sostanza in ogni mese dell'anno è possibile cavar tartufi di una o più varietà, i periodi sono i seguenti:

Scorzone: Aprile-Settembre
Uncinatum: Settembre-Gennaio
Brumale: Novembre-Dicembre
Borchi: Gennaio-Maggio

TartufoCacciaCapizzi2016 05Questo è lo scenario in cui mi sono, molto volentieri, calato, un'ambiente condito di tanta genuinità, non solo di alimenti, ma anche di persone come ad esempio Giuseppe Vivaldi, veterinario di Capizzi che ci ha accompagnato durante la caccia al tartufo, piuttosto che di Pippo Zuccarà e Vincenzo Dattolo, i "fuochisti" specialisti in forno e griglia di Nino Parasuco, già conosciuti durante l'ultima sagra, nonchè Pietro Alesi, suocero di Nino detto Zio Pietro e produttore di uno dei migliori vini casalinghi che io abbia mai bevuto. Persone straordinariamente legate al loro territorio, ma talvolta anche portatori di tristi storie di emigrazione, Capizzi è rimasta decimata da questa piaga, ma ogni loro racconto che ho ascoltato, comunque è sempre stato saturo di quell'orgoglio e attaccamento alla propria terra che solo noi siciliani possediamo, e questa caratteristica non c'è Germania o Stati Uniti che ce la possa togliere.

TartufoCacciaCapizzi2016 08La giornata si è quindi conclusa nella "grassonier", si avete letto bene, il nome, scritto alla francese, mi è piaciuto coniarlo per indicare il casolare dotato di tutti i comfort in cui gli uomini della famiglia e gli amici di Nino si riuniscono a gozzovigliare a base di suino, da non confondere con la "garconiere", questo si che è francese, adibita a ben altri svaghi! Qui è stato un crescendo di tagliatelle al tartufo, costatine di maiale, salsicce convenzionali, al tartufo e con la copertina di cotenna, quest'ultima è una particolarità della Macelleria Parasuco, ma anche del quasi scomparso budello di maiale secco all'origano, dal gusto forte e quindi non per tutti i palati.

Pertanto, dopo questa lunga esperienza posso affermare ancora con più convinzione e certezza di prima che il tartufo a Capizzi esiste, ed anche abbondante se si considera che in un territorio di circa mezzo km quadrato in sole due ore ne abbiamo trovati parecchi anche se piccolini, nonostante i cani fossero continuamente disturbati dalle mie incursioni fotografiche.

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Dal Friuli al Lussemburgo, Roberto Beltramini giudice WACS

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Beltramini2016 01Gli eventi dell'A.P.C.P.PA. e del Culinary Team Palermo costituiscono sempre un'ottima occasione per conoscere personaggi importanti della cucina nazionale e internazionale. Grazie alle amicizie del Maestro Giuseppe Giuliano, coach del team e giudice internazionale WACS, stavolta è toccato ad un suo collega di giuria visitare la Sicilia. Roberto Beltramini chef e giudice WACS è stato gradito ospite durante il Natale del Cuoco, svoltosi lo scorso 11 Dicembre 2016 presso le strutture Villeroy Resort e Tenuta Scozzari a Bolognetta (PA). Per me è stato quasi obbligatorio approfittare dell'occasione e video intervistarlo.

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Beltramini2016 02Roberto Beltramini è nato in Lussemburgo in cui oggi vive e lavora, ma la sua famiglia ha origini friulane, infatti i genitori sono stati costretti a trasferirsi a causa di quella piaga chiamata emigrazione che a quanto pare ha colpito non solo il Sud Italia, ma anche il suo Nord. La figura professionalmente più influente per Roberto è sicuramente stato il fratello, più grande di circa 10 anni è grazie a lui che il nostro giudice è passato dalla cucina di mamma, in cui già a pochi anni di età preparava gli gnocchi, agli studi presso l'alberghiero e poi ai concorsi. Oggi Roberto è completamente assorbito dall'insegnamento e dai suoi compiti di giurato, ma aspira ad avere un suo ristorante con pochi coperti e quindi a misura d'uomo, in cui offrire una cucina un po' fusion, a metà strada tra Francia e Italia, con le speziate influenze orientali che a lui piacciono tanto. Il pasto ideale di Roberto Beltramini è costituito da una bella lasagna, un evergreen che piace sempre a tutti, seguito dal un bel piatto di Kaiserschmarrn, un dolce di origini austriache costituito da una sorta di crepe soffiata con uva passa, tagliata e saltata nel burro e infine servita con una composta di mele o mirtilli.

 

A Camporeale, natura e itinerari dell'Alto Belìce

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NaturaBelice2017 01L'evoluzione era ormai nell'aria, le tre indovinate edizione di Camporeale Day hanno fatto da apripista ad un'idea che si preannuncia molto più grande e importante per la vastità del territorio coinvolto e per le innovative soluzioni adottate. Riecco quindi di nuovo al lavoro i giovani membri della Proloco di Camporeale che finora sono riusciti, con i fatti, a trainare molte delle aziende del proprio comprensorio e adesso ci provano con tutto l'Alto Belìce, porta d'ingresso a quello scrigno di bellezze naturali, enogastronomiche e culturali solcato dalla famigerata "fondovalle" SS624.

In verità, l'idea alla base del progetto "Natura e... itinerari dell'Alto Belice" è stata partorita quattro anni fa da Benedetto Alessandro e Vincenzo Rizzuto, per cui i vari Camporeale Day degli anni successivi sono solo stati dei piccoli, ma importanti tasselli che oggi ci permettono di capirne la lungimiranza e la strategia complessiva. "Natura e Belìce" è stato presentato, a giornalisti e operatori del settore, presso l'Aula Consiliare del Palazzo del Principe di Camporeale durante la mattina di Domenica 29 Gennaio 2017, giusto a pochi mesi dalla stagione turistica poichè è a quel comporto che esso si rivolge. Il suo scopo è infatti quello di promuovere il turismo naturalistico in alcuni territori della provincia di Palermo ricadenti nei Comuni di Camporeale, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Roccamena e Monreale, grazie all'attività della Proloco di Camporeale e con il parziale finanziamento ottenuto dall'Assessorato Turismo Sport e Spettacolo della Regione Siciliana. Durante la veloce ed efficace presentazione sono intervenuti, oltre agli ideatori del progetto, anche Ignazio Plaia, funzionario dell'Assessorato Regionale al Turismo, nonchè Mimmo Gelsi, Presidente della ProJato, proloco dei territori di San Giuseppe Jato e San Cipirello coinvolta nella fase esecutiva.

NaturaBelice2017 02I partner del progetto sono già numerosi, aziende vinicole, agricole, caseifici, frantoi, strutture di ospitalità, sono già più di 20 i soggetti che hanno creduto nella Proloco di Camporeale e nelle sue idee di sviluppo, alcuni di questi erano presenti alla conferenza stampa: le cantine Alessandro di Camporeale, Marino, Porta del Vento e Terre di Gratia, ma anche l'Azienda Agricola Badalà e Feudo Mondello, quest'ultima è una nuova impresa che aprirà i battenti tra pochi giorni, rappresentata per l'occasione dai fratelli Agosta e operante nel campo della produzione di pasta secca, simbolo della tanto auspicata chiusura della filiera grazie alla loro capacità di curare in proprio la coltivazione del grano, la molitura a pietra ed infine la trasformazione e la commercializzazione del prodotto finito. Le varietà impiegate sono tutte molto interessanti e spaziano dai grani siciliani antichi come la Tumminia, il Perciasacchi ed altri fino alle varietà di duri cosiddetti moderni, come l'ottimo Simeto piuttosto che l'Orizzonte, nati in Sicilia alcuni decenni fa dall'impegno del Prof.Calcagno, dalla Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia di Caltagirone (CT) e dall'Azienda Pro.se.me. di Piazza Armerina (EN).

NaturaBelice2017 03In verità, con il progetto della Proloco non si è inventato nulla, si sono solo messi a frutto quei concetti, spesso astratti, che sono riconducibili alle cosiddette sinergie, in questo caso è stato risolutivo mettere in rete un'offerta già esistente, ma precedentemente disorganica. Luoghi comuni a parte, l'iniziativa prende forma principalmente in seguito all'opera di censimento e organizzazione di quelle aziende che sono già in grado di offrire un minimo di servizi ai turisti, realizzando un ambiente esperenziale, tramite cartografie, sito web e app per Android e IOS, tipico degli amanti del bike tourism e/o del trekking. Infatti, secondo le ricerche condotto dagli ideatori, il turismo naturalistico oggi in Europa è in forte espansione per cui, intercettarne anche una piccola fetta potrebbe avere ricadute economiche molto interessanti su tutto l'Alto Belìce. La regione italiana che ha più puntato su questo tipo di turismo è la Toscana con circa il 18% di presenze, seguono a ruota poche altre che oscillano dall'8% della Lombardia al 5,5% della Sicilia per comporre infine quel sorprendente scenario che nel 2013 costituiva ben il 25% delle presenze totali in Italia per un totale di ben 100 milioni di turisti. Ho voluto citare questi numeri per far ben comprendere come il turismo di massa, indirizzato verso il mare e le brevi visite a beni culturali, si sta evidentemente evolvendo in qualcosa di molto più frammentato, variegato e soprattutto specialistico. L'immagine negativa del turista "fai da te", inventata molto anni addietro da una pubblicità di un noto tour operator, oggi è invece diventata una realtà vincente, soprattutto grazie ai nuovi strumenti che internet gli ha fornito. Bisogna quindi riadattare l'offerta in modo da fornire informazioni e servizi immediatamente fruibili al "nuovo" turista, tramite tecnologie moderne e soluzioni intelligenti, ma soprattutto dimenticarsi di poter continuare a "vivacchiare" riempiendo un villaggio vacanze con migliaia di persone che si adattano a condurre la stessa esperienza del vicino di bungalow e magari a mangiare malissimo a causa degli inevitabili pasti a basso costo. La nostra regione, per fortuna, ha tutte le risorse necessarie per poter creare un'offerta nuova, ma soprattutto a 360 gradi grazie a beni culturali, naturalistici ed enogastronomici, sta solo a noi svoltare ed intercettare questo gran numero di "nuovi" turisti che aspettano solo di essere accolti da un territorio che oggi nel mondo non è più valutato solo per sua storia malavitosa la quale, pur continuando ad esistere, è fortunatamente diventata solo una sfaccettatura più o meno folkloristica di un'offerta molto più ampia.

NaturaBelice2017 04Dopo la conferenza stampa, in tarda mattinata, si è svolto un vero e proprio mini tour del territorio svoltosi tramite navetta con sosta all'Agriturismo Ponte Calatrasi, per un assaggio di ricotta calda, e poi con la visita alla Cantina Sallier de La Tour, presso la quale si è infine tenuto un light lunch che ha rifocillato i partecipanti. Partner fondamentale del pranzo è stata la famiglia Marino, titolare a Camporeale del "Baglio A Cannara", un panificio-biscottificio, un ristorante e della cantina Marino Vini, una sorta di esempio  familiare di chiusura di filiera che tramite i sapori e i profumi della gastronomia di quei territori ha espresso anche questo importante aspetto, parte integrante dell'esperienza turistica di quei luoghi. La visita in cantina è stata un'utile occasione per rinfrescare la mia memoria sull'offerta di Sallier de La Tour, la cui gestione è stata trasferita a Tasca D'Almerita ormai da qualche anno. Il tour vinicolo è stato condotto da Costanza Chirivino, appartenente alla famiglia proprietaria dell'azienda, e dall'enologo Mario Licari i quali hanno illustrato ai presenti il lavoro svolto in cantina e negli ottanta ettari di territorio ad impasto medio che oggi ospitano Grillo, Insolia, Nero D'Avola e Syrah che danno poi vita alle rispettive etichette. Differente è invece il La Monaca, una selezione di Syrah con una lunga evoluzione in barrique che costituisce il vino di punta dell'azienda. L'etichetta che però mi ha più interessato è stata quella del Syrah base, nonostante i due anni di affinamento condotti quasi totalmente in acciaio, esprimeva ancora una certa asperità e giovinezza rivelando una complessità che nel fratello maggiore La Monaca, sicuramente più pronto, erano state in parte coperte dal legno. Comunque, vini da approfondire con più calma, con cui fare lentamente amicizia in modo da riuscire ad estrarre tutto il territorio che essi esprimono. Un dato però è certo, questo straordinario comprensorio conferma in pieno la sua vocazione per il Syrah, vitigno alloctono sul quale un'altra cantina, Alessandro di Camporeale, ha d'altronde fondato le sue fortune.

Sito web: www.naturaebelice.it 
App Natura e Belice: https://appsto.re/it/c-zggb.i

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Gilles Renusson, un pasticcere francese negli States

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GillesRenusson2017 01Dopo aver portato a casa il titolo di Campioni assoluti nella cucina combinata ai Campionati Italiani della Federazione Italiana Cuochi, che si sono svolti fra il 18 il 21 Febbraio 2017 presso il complesso fieristico di Rimini, il Culinary Team Palermo dell'Associazione Provinciale Cuochi e Pasticceri di Palermo, ha subito iniziato a prepararsi per le prossime competizioni mondiali. Infatti, l'oggetto di approfondimento del seminario F.I.C. svoltosi a Palermo l'8 e 9 Marzo 2017 presso l'IPSSEOA Pietro Piazza, è stato il complesso regolamento delle gare internazionali, grazie alla disponibilità del Pastry Chef Gilles Renusson, membro WorldChef e dello Chef Domenico Maggi, entrambe giudici W.A.C.S., i membri del Culinary Team Palermo, oggi guidati dal Team Manager Mario Puccio e dal sempiterno Coatch Giuseppe Giuliano, hanno avuto accesso a importanti dettagli la cui conoscenza sarà utile nelle prossime competizioni nonchè nella loro vita professionale. 

Il 10 Marzo, approfittando dell'amicizia che lega Giuseppe Giuliano, giudice internazionale nostrano, con Gilles Renusson, è stata organizzata, sempre presso l'Istituto Pietro Piazza, una demo di quest'ultimo durante la quale è stato preparato un dessert al piatto. Gilles, nonostante il nome francese, è cittadino americano da tanti anni, abita nello stato del Michigan e insegna la sua materia agli studenti con passione e dedizione come solo un pastry chef che è diventato giudice internazionale può fare. Ovviamente non mi sono fatto scappare l'occasione di avere Gilles a portata di fotocamera e così gli ho chiesto di poter registrare la mia solita video intervista, la troverete qui di seguito insieme a qualche mia anticipazione scritta, ma per realizzarla ho dovuto chiedere aiuto allo Chef Benny Priolo, conoscitore della lingua inglese e ormai traduttore ufficiale per le mie interviste A.P.C.P.PA.

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Come già detto, la storia di Gilles Renusson è iniziata in un piccolo paesino francese nei pressi di Parigi in cui seguendo l'ispirazione della mamma ha scelto la scuola di cucina per poi accorgersi che invece era la pasticceria la sua vera passione, galeotto è poi stato l'incontro con sua moglie americana, il trasferimento in Michigan è quindi stato una normale conseguenza. Trasferitosi negli States ha subito iniziato ad insegnare, poi sono arrivati i concorsi e la qualifica di giudice internazionale. Gilles mi ha raccontato di una pasticceria americana che sta lentamente risalendo la china della qualità in direzione di una versione più salutistica, lasciandosi alle spalle le numerose macerie alimentari causate dagli elevati contenuti di zuccheri e grassi.

Cosa mangia Gilles? A tavola guai a chi gli tocca le insalate, sono indispensabili per la sua salute, ma gradisce molto il pollo con le verdure, a fine pasto però, il dolce gliel'ho suggerito io, considerando che Gilles ama i bigne e le castagne un bel Profitterol con crema alle castagne per lui sarebbe proprio perfetto!

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Olio buono nella ristorazione si può

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Olio2017 01Da una discussione intavolata sull'argomento "pizza" tra la gourmet Stefania Petrotta e me, è emersa la condivisione di uno dei problemi della nostra ristorazione: la scarsa attenzione per l'olio extravergine d'oliva, di quello impiegato in cucina e di quello offerto a tavola. Quest'ultimo è quasi sempre di qualità insufficiente, ma almeno è visibile e valutabile da tutti, immaginatevi però cosa può accadere con quello utilizzato tra le spesse mura della cucina! Nelle mie valutazioni di ristoranti e pizzerie, nonostante la qualità dell'olio non possieda un parametro solo ad esso dedicato, comunque vi garantisco, da appassionato della materia quale sono, che esso ha un suo peso e durante ogni mia recensione chiedo, o quanto meno mi informo e scruto più o meno segretamente, per capire la politica del locale in merito, tuttavia quasi sempre rimango deluso. Pertanto, ho voluto dare spazio e risalto sul mio sito web a quest'aspetto della ristorazione con cui mi scontro troppo spesso, anche nei migliori locali ho trovato oli di bassa qualità, messi li tanto per accomodare o peggio, palesemente difettati e avariati, lasciando a Stefania l'onere di bacchettare e di far girare sui social la nostra comune indignazione in merito, condivisibile comunque da chiunque lo ritenesse opportuno in bacheche e diari di ristoratori, cuochi, pizzerie e pizzaioli, fategli questo regalo che speriamo smuova qualche coscienza, a buon intenditor...!

OLIO !

Olio2017 02Nell'era di Masterchef e compagnia bella, che l'ambito enogastronomico vada "di moda" è una certezza. Così come è assodato che, mediamente, tutti ormai siamo in grado di distinguere i locali dove si faccia buona cucina da quelli più scadenti. Oddio, proprio tutti magari no, ma non è questo il contesto per aprire una discussione sul ruolo che abbiano avuto i programmi televisivi di cucina o i siti di recensioni.

Prendiamo dunque per buono che il livello della cultura enogastronomica della popolazione si sia decisamente innalzato. Di fatto però, la maggior parte del popolo "mangereccio", ha ancora dei gap culturali tali da non fargli percepire - e ripeto che parlo della maggioranza, non certo di quella minoranza appassionata che si informa assiduamente – dettagli che poi tanto piccoli non sono. Anzi, nel caso specifico, sono essenziali per la riuscita dell'intero piatto, che sia una pizza, un'insalata, un buon pesce o un piatto di pasta (e perfino un dessert, Nino Graziano docet).

Parliamo dell'olio, l'oro verde che tutti abbiamo a casa e che tutti ci aspettiamo di trovare su qualsiasi tavola. Io sono una che è cresciuta a "bukë dhe vaj" che, per coloro che non conoscessero l'arbëreshë, vuol dire semplicemente e meravigliosamente "pane e olio". E quando dico olio date pure per scontato che stia parlando dell'unico che possa appellarsi tale: l'olio extravergine di oliva, il fantomatico olio EVO come ormai si trova indicato in tutte le ricette. Sia che mi sieda nella più bieca osteria, sia che mi trovi in un meraviglioso locale stellato, passando ovviamente per le pizzerie, è la prima cosa che chiedo al cameriere. E non nascondo che, nonostante sia cresciuta ad "olio buono" e sebbene a casa mia parlare del "nostro olio" sia sempre stato come parlare di un preziosissimo tesoro accessibile solo alla famiglia e a pochi intimi amici, per me è una tale droga da non riuscirne a fare a meno anche quando è al palato evidente che si tratti di un olio scarso. Specie se mi trovo di fronte una buona pizza di cui mi sono conservata qualche pezzo di bordo alla fine, proprio per intingerlo in esso.

E così è a voi che mi rivolgo, ristoratori e, soprattutto, pizzaioli. Troppo spesso a fronte di un buon menù o un'ottima pizza, noi clienti "olio-dipendenti" ci troviamo dinnanzi un olio di bassa qualità. Ma davvero oggi non si comprende il valore di questo prodotto? Davvero oggi si deve assistere a questa scena in una terra naturalmente vocata alla sua produzione? Non dimentichiamo, infatti, che la Sicilia è la terza regione di produzione di olio d'oliva in una nazione seconda per produzione mondiale (dati Ismea/Unaprol). Le varietà siciliane sono tra le più rinomate e le più versatili. Abbiamo una scelta di oli tale che ci permette di partire da quello dal sapore più delicato per arrivare a quello più gustoso e forte, riuscendo ad abbinare a qualsiasi piatto l'olio giusto che sappia valorizzarlo al meglio. E non mi venite a dire che si tratta di un problema di costi, perché se solo vi prendeste la briga di girare un pochino la nostra bella terra, scoprireste una tale ricchezza di piccole aziende produttrici con cui sarebbe addirittura pensabile un accordo per la produzione di un "taglio sartoriale" solo vostro! Figuriamoci se non ci si potrebbe accordare sul prezzo della fornitura.

Insomma, amici pizzaioli e ristoratori, è vero che questo è il momento dei programmi televisivi di argomento culinario, ma è anche vero che è l'era di Slow Food e dei prodotti a chilometro zero, della riscoperta dei piccoli produttori, delle antiche lavorazioni e del recupero dei grani antichi. Facciamo in modo che anche l'olio abbia il suo posto sulle vostre tavole e che si tratti di un trono.

Stefania Petrotta

 

Il Pane di Monreale al Crea di Roma

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PaneMonrealeCrea2016 01Per preparare il pane, e quindi come nel nostro caso anche il Pane di Monreale, apparentemente bastano soltanto 4 ingredienti: farina, acqua, sale e lievito, a questi si dovrebbero però aggiungerne qualcun altro, altrettanto caratterizzante, come ad esempio il forno, ma anche il tempo, ingrediente segreto costosissimo oggi quasi scomparso, perché una buon pane si può ottenere soltanto con una lunga lievitazione, infine sarebbe il caso di citare anche la passione dell'uomo che lo prepara. Qualche anno fa ho trovato tutti questi ingredienti presso il panificio Antica Forneria Tusa oggi chiamato Forno Litria, presso il quale il titolare Nazareno Tusa prepara il pane esattamente come gli insegnarono tantissimi anni fa, da questa mia esperienza nacque poi un articolo che pubblicai con il titolo "L'ultimo Pane di Monreale". L'articolo uscì su CucinArtusi.it nell'agosto 2011 ed a quell'epoca, a parte l'Atlante del pane siciliano del Consorzio Gian Pietro Ballatore, nessuno su Internet si era occupato in maniera dettagliata del Pane di Monreale, ancora oggi cercando in rete esso ha un buon posizionamento su Google, risultato che nel 2016 è saltato all'occhio di un ricercatore del Crea, è stato così che dagli uffici di Roma dell'importante istituto nazionale mi è stato chiesto di collaborare nella costruzione dei contatti con gli operatori del settore, finalizzati alla realizzazione di un progetto di ricerca chiamato TerraVita, finanziato direttamente dal Mipaaf, il cui obiettivo era quello di studiare e approfondire i legami col proprio territorio di alcuni prodotti tipici italiani, tra i quali appunto anche il Pane di Monreale. Dopo un focus con i ricercatori del Crea di Roma e di Sicilia, con la collaborazione di alcuni docenti del Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali dell'Università di Palermo, svoltosi a Monreale (PA) il 27 Aprile 2016 (Album foto), è stato successivamente compiuto anche un sopralluogo presso alcuni operatori del settore, principalmente molini e panificatori. Infine, i risultati della parte del Progetto Terravita relativo al Pane di Monreale, sono stati presentati durante un convegno intitolato "Il Pane di Monreale tra sostenibilità e territorio" svoltosi lo scorso 25 Maggio 2017 nei locali di Villa Savoia a Monreale durante il quale diversi relatori, con un approccio multidisciplinare, hanno illustrato il lavoro compiuto, mentre i risultati complessivi di tutto il Progetto TerraVita sono stato oggetto di un mega convegno svoltosi poi a Roma l'8 Giugno 2017.

PaneMonrealeCrea2017 02Il convegno di Monreale si è tenuto a Villa Savoia, presso la quale, dopo i saluti istituzionali da parte dell'amministrazione locale, si è aperto con la Dott.ssa Angela Polito del Crea - Alimenti e Nutrizione - che in qualità di coordinatrice del team ha illustrato il Progetto TerraVita. Come già detto, dall'approccio multidisciplinare adottato durante la ricerca, è scaturito un numero di relazioni e uno scenario particolarmente completo, sono stati infatti analizzati gli aspetti economici, chimico-fisici e di sostenibilità ambientale, illustrati dai seguenti relatori in ordine di intervento: Giovanni Dara Guccione del Crea - Politiche e Bioeconomia, Antonio Papaleo del Crea - Politiche e Bioeconomia, Rita Acquistucci del Crea - Alimenti e Nutrizione, Francesca Barbato, Agronoma, ed infine Maurizio Cellura, docente UNIPA esperto in ambiente e sostenibilità.

PaneMonrealeCrea2017 03Gli interventi sono stati tutti molto interessanti, ma se dovessi simbolicamente sceglierne uno penserei subito alla relazione della Dott.ssa Rita Acquistucci dal cui lavoro di analisi chimiche e fisiche è scaturita quell'importante informazione secondo cui l'indice e carico glicemico del Pane di Monreale è più basso del normale pane preparato con le comuni farine bianche raffinate, fatto facilmente presupponibile considerando le materie prime impiegate, ma soprattutto che esso può essere ancora di più abbassato grazie all'uso del lievito madre. Pertanto, considerando che i ricercatori del settore oncologico raccomandano di utilizzare alimenti a basso indice glicemico per prevenire le malattie tumorali, ritengo questo aspetto salutistico del prodotto in questione molto importante e sicuramente da approfondire per renderlo utile alla sua promozione, soprattutto presso tutti quei consumatori sempre più attenti al cibo sano e genuino.

PaneMonrealeCrea2017 04I risultati di questo progetto potrebbero essere inoltre molto utili per la compilazione di un disciplinare di produzione finalizzato alla richiesta di un riconoscimento o meglio certificazione di provenienza del prodotto, sarebbe proprio il caso di non lasciarsi sfuggire quest'occasione, affrontare e risolvere le criticità del prodotto emerse dalla ricerca del Crea e realizzare quelle che io chiamo le mie tre C: Cooperazione, Certificazione e Comunicazione del prodotto, ciò potrebbe portare oltre ad un miglioramento qualitativo del Pane di Monreale anche ad un interessante aspetto di sviluppo economico del territorio che coinvolgerebbe tutta la filiera, dal produttore di grano fino al panificatore, rendendo anche più remunerativo il prodotto finale. Per quanto riguarda la Cooperazione bisogna acquisire il fatto che solo mettendosi assieme, anche iniziando in pochi, si possono realizzare quelle sinergie indispensabili allo sviluppo di un prodotto, sarà poi compito della Certificazione, una volta ottenuta, fornire al consumatore le garanzie necessarie, infine bisognerebbe investire nella Comunicazione al fine di differenziare e far conoscere meglio e in dettaglio il Pane di Monreale, infatti è tristemente nota la diffusa confusione generata dai numerosi venditori abusivi che soprattutto nel fine settimana invadono alcune strade della vicina città di Palermo. Pertanto, ritengo prioritario iniziare una vera e propria formazione del consumatore da effettuarsi tramite laboratori sensoriali durante i quali bisognerà spiegare, tramite degustazioni guidate, la differenza tra un pane con certificazione di provenienza piuttosto che di uno senza né arte né parte. Per tali motivi, ben vengano le manifestazioni che riescono ad attirare numerosi visitatori, ma a patto che il prodotto festeggiato sia effettivamente posto in primo piano, che non venga svilito da offerte e assaggi gratuite e che possibilmente venga "spiegato" ai consumatori più attenti tramite dei momenti di approfondimento, programmabili non solo durante le manifestazioni, ma anche separatamente durante tutto l'anno.

PaneMonrealeCrea2017 05Il Pane di Monreale è stato inoltre oggetto di una tesi di laurea in Scienze Gastronomiche conseguita poche settimane prima del convegno a Pollenzo (CN) da Alice Di Prima, una giovane palermitana che ha scelto questo argomento in seguito alla sua passione per l'arte bianca Stavolta però questo pregevole lavoro non rimarrà confinato dentro una polverosa biblioteca o un sperduto cassetto, ma grazie alla gentile concessione dell'autrice sarà pubblicato in quattro puntate su CucinArtusi.it. Nella tesi di Alice emergono diversi aspetti legati al prodotto, ma quello più interessante concerne la scoperta del Lactobacillus Pontis, il quale sembra non essere presente in nessun altro impasto acido esaminato dalla letteratura scientifica di settore, andando così a costituire un altro forte caratterizzante che lega il Pane di Monreale al suo territorio, agevolando così la richiesta di eventuali certificazioni di provenienza.

Tesi sul pane di Monreale di Alice Di Prima

Prima puntata: - La premessa
Seconda puntata: L'impasto acido
Terza puntata: La ricerca
Quarta puntata: Le conclusioni

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Una tesi sul Pane di Monreale: 1. La premessa

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Premessa

Il pane è uno degli alimenti indispensabili sulle tavole degli Italiani, soprattutto nel Meridione dove la produzione di pane con impasto acido fa parte dell'identità culturale e geografica. L'impasto acido è un complesso ecosistema nel quale sono presenti sia lieviti sia batteri lattici (LAB); l'utilizzo dell'impasto acido nella produzione di prodotti da forno presenta molteplici vantaggi sensoriali, come l'incremento dell'aroma del pane, vantaggi tecnologici, come il prolungamento della shelf-life e il miglioramento della struttura dell'impasto e infine vantaggi di tipo nutrizionale in quanto aumenta il valore nutritivo del prodotto da forno. Questo lavoro è stato incentrato sul Pane di Monreale, un pane tradizionale della Sicilia. Da un'accurata indagine, che ha preso in esame le tecniche di produzione e le materie prime impiegate dalle panetterie del comune di Monreale, è emerso che la produzione di questo pane ha subito negli ultimi anni diversi cambiamenti: il lievito madre, tradizionalmente utilizzato, è stato parzialmente o totalmente sostituito con il lievito di birra, il forno alimentato a legna è stato sostituito dal più moderno forno elettrico. Questi cambiamenti influiscono sensibilmente sulle caratteristiche distintive del prodotto esaminato dando luogo alla perdita di valori, sapori e tradizioni legati alla produzione artigianale del pane. La ricerca quindi si è incentrata sull'isolamento e la caratterizzazione del microbioma dell'impasto acido usato per la produzione artigianale del Pane di Monreale; infatti l'incremento di informazioni sulla popolazione microbica naturale può essere un mezzo attraverso il quale prevenire la perdita della biodiversità dei cibi tradizionali. Sono state eseguite analisi morfologiche e genotipiche ai fini di identificare le diverse specie di lieviti e LAB presenti nell'impasto acido. Queste analisi hanno permesso l'identificazione di una specie di lievito appartenente a Saccharomyces cerevisiae e due specie di LAB, Lactobacillus paralimentarius e Lactobacillus pontis. Infine sono stati effettuati dei test sensoriali sul prodotto finito per investigare sull'orientamento delle preferenze dei consumatori rispetto al Pane di Monreale.

Il pane ieri e oggi

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Figura 1.1: Preparazione del pane, Tacuinum sanitatis XIV secolo. (Fonte: pinterest.com)

Il pane, pur nella sua semplicità essendo composto da pochissimi ingredienti basilari quali acqua, farina e talvolta lievito, "è una sostanza intrisa di profumi e di sapori, ma anche un cibo nel quale si stratificano memorie ancestrali, valori simbolici, usanze regionali e locali" (Longo, Scarpi, 1993)1. All'interno della storia dell'alimentazione mediterranea il pane, infatti, più di ogni altro alimento, è portatore di significati, di valori culturali e tradizioni che vanno oltre al semplice sfamare il corpo: il pane sfama anche lo spirito (Palmieri, 2007). E' questa la sua peculiarità: essere al tempo stesso cibo e segno. Le radici di questo alimento affiorano, infatti, sin dal Neolitico, dove si usavano l'orzo ed il miglio per dare vita ai pani più antichi, quelli azzimi non lievitati2. Con l'età del Bronzo si aggiungono altri due cereali nella dieta dell'uomo: la segale e l'avena, ma soltanto con gli Egiziani (II secolo a.C.), che Ecateo di Mileto chiama "mangiatori di pane"3, il pane assume la veste a noi più conosciuta, quello di pane lievitato e tale scoperta viene diffusa in tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo4. Pur cambiando nel corso dei millenni ingredienti, forma, usi e costumi il pane è e rimarrà sempre al centro della simbologia e dell'alimentazione delle culture mediterranee, contribuendo a creare un'identità culinaria che contraddistingue tutti i popoli che si affacciano sul Mare Nostrum. In particolare l'Italia risulta essere uno dei Paesi dove si ha una delle più ricche varietà di pane e di usi tradizionali ad esso legato, segno evidente che ancora oggi, nonostante l'inevitabile globalizzazione che ha trasformato il pane in un prodotto di puro consumo, ricopra un ruolo importante nella vita della popolazione; infatti, nel momento in cui, pervasi di nostalgia, ci si volga alla ricerca delle proprie radici il pane risulta essere uno dei primi alimenti attraverso il quale si ristabilisce un contatto con il passato e si riacquisisce l'identità perduta (Palmieri, 2007)5.

 

Il Pane di Monreale

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Figura 1.2: Il Pane di Monreale in formati diversi. (Foto: fotografiassociati.com)

In Sicilia, granaio del Mediterraneo fin dagli antichi Greci, il Consorzio Pietro Ballatore ha identificato e censito circa settanta tipologie di pane (Ballatore,2001), sia pani comuni che pani votivi, che sono tutt'ora prodotti in tutta l'isola. Tra esse il Pane di Monreale è il pane tradizionale prodotto nel territorio dell'omonima cittadina di Monreale, famosa nel mondo per la sua imponente cattedrale Santa Maria Nuova di fattura arabo-normanna ricca di mosaici in oro e divenuta patrimonio dell'Unesco nel 2005, che sorge su una collina che domina quella che un tempo veniva chiamata la Conca D'Oro, cioè la zona pianeggiante sulla quale si è sviluppata l'attuale città di Palermo.

A Monreale questo tipo di pane è conosciuto come il "pane di frumento" perché in passato (anni sessanta e settanta del Novecento) veniva distinto dal "pane fino" prodotto con la farina "bianca" di grano tenero molto più raffinata della semola. Nei tempi più antichi invece la denominazione di "pane di frumento" serviva a differenziare questo prodotto dal pane fatto con altre farine quali il farro e le fave, quest'ultimo non più in commercio, intendendo i Monrealesi per frumento esclusivamente il grano duro, il grano principalmente diffuso in tutta la Sicilia e in quell'area in particolare.
Il "pane di frumento" infine ha assunto la denominazione di "Pane di Monreale" nel momento in cui la sua commercializzazione si è estesa al di fuori nel comune di Monreale nella vicina Palermo per evidenziarne la provenienza, infatti "il prodotto esclusivamente locale è privo di una identità geografica in quanto essa nasce dalla sua delocalizzazione" (Montanari e Capatti ,2011). Si rinviene testimonianza dell'apprezzamento di questo pane da parte dei Palermitani sin dalla fine dell'Ottocento come si può evincere dal testo di Gaston Vuller all'interno del "Le Tour du monde: nouveau journal des voyages"6 dove nel capitolo dedicato alla città di Monreale si dice: "Le pain fabriqué à Monreale est recerché par les Palermitais" (tradotto in italiano: "il pane prodotto a Monreale è ricercato dai Palermitani").

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Figura 1.3: Panoramica della città di Monreale. (Fonte: Antonino Palazzolo/AdobeStock)

Il Pane di Monreale tradizionalmente era prodotto con l'esclusivo utilizzo di semola di grano duro delle varietà locali, impasto acido (criscente), acqua e sale; all'impasto era data la forma di pagnotta (vastedda), ricoperta di sesamo e lasciata lievitare fino al raddoppio. Le pagnotte lievitate erano cotte nel forno a legna a fuoco diretto che conferiva loro un profumo inconfondibile, fino a quando non diventavano colorite sulla superficie.

Il Pane di Monreale è stato inserito all'interno dell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T.) del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali nella sezione della Regione Sicilia dal 22 Luglio 20047 : per rientrare in questo elenco i prodotti agroalimentari devono avere alle spalle una storia che dimostri l'utilizzo di pratiche produttive tradizionali da almeno 25 anni diffuse omogeneamente in tutto il territorio interessato: "sono considerati prodotti agroalimentari tradizionali quelli le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura risultano consolidate nel tempo." (D.M. 8 settembre 1999, n. 350). L'inserimento all'interno di questo registro non ha però evitato la perdita, nell'ultimo decennio, delle caratteristiche tradizionali del prodotto da forno; infatti il registro non ha la stessa valenza di un marchio di tutela a livello europeo come DOP e IGP, per i quali è previsto un disciplinare di produzione. Quest'ultimo è un codice tecnico che racchiude al suo interno le caratteristiche qualitative, le condizioni di produzione e dei controlli che permettono al prodotto di essere protetto. Lo strumento di valorizzazione dei P.A.T. non ha lo scopo di tutelare la genuinità dei prodotti, preservandone le caratteristiche che lo contraddistinguono, ma è riconosciuto solo a livello nazionale e viene utilizzato esclusivamente a fini di promozione istituzionale.
Di seguito viene riportata la scheda identificativa8 del Pane di Monreale inserita nell'elenco dei P.A.T. della Regione Siciliana ai sensi del D.M. n.350/1999, nella sezione "Paste fresche e prodotti di panetteria, pasticceria, biscotteria e confetteria".

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Tabella 1.1: Scheda identificativa del Pane di Monreale inserita nell'elenco dei P. A.T. della regione Sicilia.

Il Pane di Monreale risulta censito anche all'interno dell'Atlante del Pane di Sicilia del 2001, nella sezione dedicata ai pani caserecci siciliani, nell'Atlante Slow Food dei Prodotti italiani del 2012, e infine nell'Atlante Slow Food dei Prodotti regionali italiani del 2015.

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Figura 1.4: Atlante del Pane di Sicilia; Atlante Slow Food dei prodotti italiani; Atlante Slow food dei prodotti regionali italiani. (Fonte:ilgranoduro.it, slowfoodeditore.it)

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Figura 1.5: Schede del Pane di Monreale presenti rispettivamente nell'Atlante del Pane di Sicilia, Atlante Slow Food dei prodotti italiani e nell'Atlante Slow Food dei prodotti regionali italiani.

Il Pane di Monreale, data l'assenza di un disciplinare di produzione che ne preservi realmente i metodi di produzione tradizionali, non soltanto viene prodotto e commercializzato anche al di fuori del suo territorio ma si è trasformato nel tempo. Infatti le nuove procedure di produzione e lavorazione hanno di fatto causato la perdita delle caratteristiche di una volta conferite dall'utilizzo esclusivo dell'impasto acido e del forno alimentato a legna, che lo contraddistinguevano dai prodotti da forno presenti sul territorio siciliano. L'impasto acido ha lasciato il posto nella maggior parte dei casi al più comune lievito di birra (Saccharomyces cerevisiae), mentre il forno a legna è stato rimpiazzato dal più innovativo e pratico forno elettrico; queste innovazioni tecniche da un lato permettono una riduzione drastica dei tempi di produzione, di cottura e una semplificazione del lavoro, dall'altro contribuiscono alla perdita di un patrimonio culturale legato a profumi, sapori e tradizioni che si tramandavano da secoli.


Una tesi sul Pane di Monreale: 2. L'impasto acido

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Composizione e ruolo nella panificazione dell'impasto acido

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Il lievito: note storiche

La farina è sicuramente la materia prima di base per la produzione del pane, ma con la scoperta del lievito da parte degli antichi Egizi, quest'ultimo è divenuto di gran lunga l'ingrediente più importante e prezioso tanto da essere mantenuto vivo con estrema cura e tramandato di generazione in generazione. Prima della scoperta casuale della fermentazione, esisteva il pane azzimo prodotto senza l'utilizzo del lievito, un pane piatto e poco soffice ancora presente in alcuni paesi del Mediterraneo. Il lievito è stato sempre avvolto da un'aura di mistero e legato a varie mitologie; per esempio in Italia è diffusa la credenza secondo la quale fu la Madonna a scoprire la fermentazione, in altri luoghi del Mediterraneo invece il dono dell'impasto acido è attribuito a figure soprannaturali femminili come ninfe, sante o dee.

Definizione di impasto acido

Nella legislazione italiana non è presente una definizione che stabilisca cosa si intenda con il termine impasto acido o lievito naturale o lievito madre (Gobbetti, Corsetti, 2010).Per impasto acido comunemente, si intende un impasto costituito da acqua e farina generalmente di grano tenero e/o segale che fermenta naturalmente, senza l'addizione volontaria di agenti lievitanti, grazie alla presenza sia di microrganismi endogeni della farina sia di microrganismi provenienti dall'ambiente in cui viene prodotto (Gänzle et al.,1998, Vogel et al., 1999).

L'uso tradizionale dell'impasto acido come agente lievitante

L'impasto acido è stato per secoli l'unico agente lievitante biologico presente in natura (Randazzo et al.,2005) ed il suo impiego in panificazione è considerato come uno dei più antichi processi biotecnologici nella storia del cibo (Röcken and Voysey,1995). Nella seconda metà dell'Ottocento, Pasteur scopre per la prima volta il ruolo dei lieviti nella fermentazione alcolica per la produzione di vino, birra e aceto. Successivamente il lievito di birra si diffuse nel mondo della panificazione (Spicher et al.,1993) sostituendo quasi del tutto i tradizionali impasti acidi; oggi infatti l'impasto acido è ampiamente utilizzato come agente aromatico e tecnologico per finalità sensoriali e in misura minore come agente lievitante biologico.

Composizione degli impasti acidi

L'impasto acido è un complesso ecosistema costituito sia da lieviti sia da batteri lattici (LAB). Questo microambiente è caratterizzato da bassi valori di pH (per gli impasti acidi maturi i valori ottimali si aggirano intorno ai 4,7- 5,4) un'alta concentrazione di carboidrati, una presenza limitata di ossigeno (De Vuyst et al., 2014) e un rapporto ottimale tra i LAB e i lieviti, generalmente di 100:1 (Gobbetti et al.,1994b). Il microbiota dell'impasto acido viene influenzato da vari fattori che ne determinano la composizione (Gobbetti et al.,1994a) tra cui le tempistiche e la temperatura di rinfresco e mantenimento, le materie prime impiegate, l'ambiente di lavorazione e la consistenza dell'impasto [dough yield (DY) = peso dell'impasto/peso della farina x100] (Barber et al., 1992).
I LAB risultano essere i microrganismi predominanti dell'ecosistema degli impasti acidi (Vogel et al., 1999) e possono essere distinti in due famiglie: batteri lattici omofermentanti e batteri lattici eterofermentanti. I primi, durante la fermentazione, producono esclusivamente acido lattico, mentre gli eterofermentanti isolati in quantità maggiori e anche conosciuti come la microflora "aromatica" (Decock e Cappelle,2005) producono acido lattico, acido acetico, CO2, etanolo e altri composti secondari che sono responsabili delle caratteristiche organolettiche del prodotto da forno. Le specie di LAB principalmente isolate appartengono al genere Lactobacillus come Lb. plantarum, Lb. alimentarius, Lb. sanfranciscensis, Lb. pontis, Lb. brevis e Lb. reuteri (Gobbetti, 1998; Gobbetti et al.2005). Per quanto riguarda i lieviti, le specie predominanti isolate all'interno degli impasti acidi sono Candida milleri e Saccharomyces cerevisiae (Gaggiano et al.,2007). In particolare il Saccharomyces cerevisiae viene spesso isolato negli impasti acidi in quanto viene comunemente utilizzato all'interno delle panetterie sotto forma di lievito di birra (Corsetti et al., 2001).

Le tipologie di impasti acidi

Tipicamente in base alla consistenza (valore DY) e alla metodologia e temperatura di rinfresco si distinguono 3 tipologie di impasti acidi (Böcker et al., 1995):
1) Tipo I: si tratta dell'impasto acido di tipo tradizionale che viene sottoposto a rinfreschi giornalieri, anche più volte al giorno, mantenuto a temperatura ambiente, per rendere viva e vitale la microflora batterica. Si presenta, normalmente, in forma solida (DY= 160). E' la tipologia di impasto acido prevalentemente diffusa all'interno delle panetterie artigianali.
2) Tipo II: si tratta di un impasto acido che si presenta prevalentemente in forma liquida (DY=200). Viene utilizzato in panificazione come agente aromatizzante.
3) Tipo III: si tratta di impasto acido di tipo II che viene sottoposto al processo di essiccamento. Trova impiego principalmente in campo industriale in quanto assicura risultati standardizzati, inoltre per il processo di panificazione è necessario l'aggiunta di Saccharomyces cerevisiae come agente lievitante. (Decock and Cappele,2005)

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Figura 1.6: Diverse tipologie di impasto acido (tipo I, II, III) (Fonte: eticamente.net; algistbruggeman.be; molinorossetto.com)

Funzioni degli impasti acidi in panificazione

L'impasto acido è responsabile di molteplici funzioni nel processo di panificazione, le principali sono elencate di seguito:
L'azione lievitante, è la funzione primitiva; è portata avanti in particolare dai lieviti che sono capaci di produrre CO2 e in misura minore da parte dei batteri lattici eterofermentanti (Gobbetti et al., 1995; Spicher, 1983).
Le principali funzioni tecnologiche dell'impasto acido portate avanti da parte dei LAB (per la loro capacità acidificante) sono la capacità di modificare i componenti della farina (es. pentosani) e la capacità di controllare le attività enzimatiche della farina.
L'impasto acido ha un importante funzione sensoriale, infatti favorisce lo sviluppo di composti aromatici che conferiscono al prodotto da forno aromi caratteristici (es. acido lattico e acido acetico). Oggi spesso viene utilizzato in panificazione esclusivamente come componente aromatico e non come agente lievitante (ad es. l'impasto acido di tipo III).
L'impasto acido svolge una funzione di "conservante naturale" del prodotto finito infatti determina il prolungamento della shelf-life del prodotto in quanto inibisce la crescita di microrganismi contaminanti e deterioranti come il Bacillus subtilis, l'agente che causa il difetto del pane filante, e lo preserva dall'insorgenza di muffe grazie alla produzione di alcune sostanze con azione antifungina.
L'impasto acido ha un importante funzione nutrizionale, infatti determina la degradazione dei fitati, sostanze antinutrizionali che diminuiscono la biodisponibilità dei minerali delle farine, aumentando così il valore nutritivo del prodotto da forno.

Vantaggi e svantaggi dell'utilizzo degli impasti acidi nella produzione di prodotti da forno

Sono stati ormai riconosciuti ampliamente da parte della comunità scientifica gli innumerevoli vantaggi e benefici di carattere nutrizionale, tecnologico, reologico e sensoriale legati all'utilizzo dell'impasto acido nel processo di panificazione (Liljeberg and Björck, 1994; Liljeberg et al.,1995; Corsetti et al., 1998; Corsetti et al., 2000; Lavermicocca et al., 2000, 2003; Clarke et al., 2002; Crowley et al., 2002; Thiele et al., 2002; Dal Bello et al., 2006; Arendt et al., 2007). Nella tabella seguente sono riportate le principali differenze che si riscontrano tra un pane prodotto con impasto acido e uno prodotto esclusivamente con lievito di birra.

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Tabella 1.2: Confronto delle principali caratteristiche del pane prodotto con impasto acido e con lievito di birra. (Gobbetti & Corsetti (2010), Tab. 9.1 pag.174, adattata da Onno e Roussel,1994)

Come si può notare dalla tabella 1.2 le differenze tra un pane prodotto con impasto acido e un pane prodotto con lievito di birra sono molteplici ed i vantaggi complessivi nell'utilizzare l'impasto acido rispetto al solo lievito di birra sono di gran lunga maggiori; ciò nonostante sono pochissimi gli artigiani che nel panorama italiano ed europeo continuano ad impiegarlo o hanno ricominciato ad usarlo all'interno del processo produttivo, infatti i più grandi svantaggi che vengono imputati all'impiego di impasto acido nella panificazione sono il maggiore impiego di tempo e la mancata standardizzazione del prodotto; svantaggi che però potrebbero essere superati grazie ad una riorganizzazione dei tempi, delle strumentazioni e degli spazi dell'attività lavorativa di un artigiano del pane, cambiamenti che sono per altro già stati messi in atto con successo in molte realtà produttive. Inoltre il recupero o il mantenimento della tradizione legata all'impasto acido connota in maniera positiva i prodotti da forno che ne prevedono l'impiego; infatti questi prodotti sono sempre più ricercati e apprezzati da parte dei consumatori, i quali oggi costituiscono un'ampia fetta del mercato verso cui orientare le proprie energie.

Prima puntata: - La premessa
Seconda puntata: L'impasto acido
Terza puntata: La ricerca
Quarta puntata: Le conclusioni

 


Artusi intervista Mangiarotti

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Mangiarotti2017 01Durante l'edizione di Cibo Nostrum, svoltasi tra Zafferana Etnea, Giardini Naxos e Taormina l'11, 12 e 13 Giugno 2017, ho avuto l'occasione di conoscere Marco Mangiarotti, giornalista dagli incarichi prestigiosi e critico musicale ed enogastronomico il quale, da me incalzato, ha infine gentilmente ceduto e mi ha concesso una interessante intervista. Marco Mangiarotti è nato a Bergamo, ma da bambino era già un frequentatore della metropoli milanese, dove tra l'altro oggi abita, grazie al nonno che lo portava con se nelle sue incursioni da Peck, dando così il via alla sua iniziazione ai piaceri del palato poi, invece di seguire la professione di famiglia, quella medica, ha optato per il giornalismo, sicuramente grazie alla sua grande voracità libraria ed alla voglia di comunicare il proprio pensiero. Un'altra passione, quella per la musica jazz, lo ha condotto a diventare uno stimato critico di quel settore, ma è stato solo negli anni '80 dello scorso secolo che Marco ha raggiunto la "consapevolezza gourmet", come dice lui, che lo ha portato a diventare oggi, da ex vicedirettore de "Il Giorno" - QN Group, un'apprezzata penna anche nell'affascinante mondo del cibo. Marco mi ha raccontato con gli occhi pieni di luce le esperienze maturate con il nonno, evidentemente se non avesse prevalso in lui la voglia di leggere e scrivere sono portato a pensare che probabilmente oggi avremmo avuto un chef stellato in più, in effetti, chi non conosce questi particolari della sua vita durante l'intervista gli avrebbe giustamente chiesto come si traghetta dalla musica all'enogastronomia, mentre invece sarebbe stato più corretto il contrario! Il cibo e l'amore per esso sono sempre stati dentro di lui.

Dialogando con un personaggio dello spessore culturale di Marco Mangiarotti non ho potuto fare a meno di spostare il discorso su Luigi Veronelli e sul suo modello di reportage enogastronomico, a cui il mio interlocutore ha giustamente aggiunto l'altro illustre nome di Mario Soldati, infatti sono stati loro a inventare lo storytelling enogastronomico con i loro reportage televisivi dell'allora giovanissima RAI, registrati nelle campagne italiane del dopoguerra tra cibi genuini ed agricoltori, piccoli produttori che per la prima volta si sono ritrovati ad essere protagonisti in TV insieme ai frutti del loro duro lavoro. Di questi reportage Gianni Minoli ha fatto delle pregevoli serie, ritrasmesse nel rigoroso bianco e nero dell'epoca sul canale di RAI Storia, da lui ideato e diretto. Dalla visione di questi pezzi è facile evincere quanto sia aderente alla realtà la frase di Mangiarotti quando afferma che questi due giornalisti, insieme alla penna di Gianni Brera, ci hanno insegnato tutto quello che oggi sappiamo della comunicazione nel settore del cibo!

Il legame con Mangiarotti di Gualtiero Marchesi e Davide Oldani è risaputo, quindi ho voluto continuare con due domande che possono sembrare poste con intenzione provocatoria, ma che invece scaturiscono esclusivamente dalla curiosità che spesso mi contraddistingue, ho iniziato con la questione "hamburger", concernente la sponsorizzazione del Maestro di un prodotto di una nota catena di fast-food pubblicizzato in TV qualche anno fa, su questa vicenda Marco ha storto il naso, mi ha chiaramente detto "non mi piace", ma forse si riferiva solo all'hamburger in quanto normalmente associato ad una bassa qualità, poi ha continuato legando la cosa ad un ipotetico pensiero del Maestro comunque tutto da interpretare. Da qualche tempo, una diatriba coinvolge gli chef che abbandonano la cucina per far altro, prevalentemente TV e non solo, ad esempio, Davide Oldani, oltre alla professione di chef, svolge anche l'attività di designer, Marco approva questo doppio impegno, anzi è esaltato dalle creazioni del suo amico, perchè comunque egli, oltre a creare oggetti utili, ha saputo ben coordinare attività interna ed esterna al suo ristorante, pertanto Mangiarotti condivide che si esca dalla cucina, a patto però che lo chef addestri bene il proprio personale per non danneggiare il ristorante e quindi il cliente.

Mangiarotti2017 02La cucina che Marco predilige è indubbiamente quella pop di Davide Oldani, ma secondo me si divertirebbe anche in una buona trattoria casalinga, d'altronde anche lui cucina in casa, quando trova il tempo di farlo, acquistando le migliori materie prime, però l'ingrediente che più lo coinvolge, quasi quando una poesia o un pezzo di John Coltrane a giudicare dai suoi occhi quando ne parla, è la polpa di ricci di mare pescati nella loro migliore stagione, sembrava quasi che ne sentisse il profumo mentre me lo descriveva, magari utilizzati per condire un'abbondante porzione di spaghetti, semplicemente saltati in un leggero soffritto di aglio e olio e mantecati, rigorosamente a fuoco spento, con un abbondante bicchierino di questa sua "polpa" preferita.

Quando il discorso è immancabilmente caduto sui dolci, secondo me Marco mi ha preso un po' in giro, perchè all'inizio mi ha confidato una certa sua indifferenza per essi, dopo le mie insistenze però i suoi occhi si sono illuminati di nuovo e a ruota libera ha cominciato ad elencare, con estrema dovizia di particolari, i bignè alla crema, le meringhe con la panna piuttosto che una semplice torta di mele, rigorosamente preparati dal suo pasticcere di fiducia, e meno male che i dolci non lo  "toccavano"! Sempre a proposito di dolci, Marco condivide pienamente con me la frase che tante volte ho scritto e pronunciato: "il pasticcere può fare lo chef, ma lo chef non può fare il pasticcere", evidente segno che in essa qualcosa di vero ci dovrà pur essere. Interessante anche la visione sulla cucina italiana sulla quale mi ha sfoderato un paradosso, secondo lui, se ho ben capito, essa "esiste" in quanto "non esiste", in sostanza, la mancanza di codifica, al contrario di ciò che hanno fatto i francesi, è vero che in Italia ha creato un'infinità di cucine, spesso tra di loro profondamente differenti, soprattutto in Sicilia, ma proprio questa diversità sta alla base delle caratteristiche che l'accomunano e che quindi ne fanno un nuovo stile ed una nuova cucina. Prima con i viaggi da bambino alla volta di Peck, poi con i ricci di mare, infine con i dolci, ogni volta che ho parlato di cibo con Marco, i suoi occhi si sono illuminati, e si, è proprio un gran gourmet!

Verso la fine della mia piacevole chiacchierata, ma per Marco probabilmente è stato un marcamento stretto durato tutta una mattinata, mi è sorto un dubbio: ma un gourmet come lui, può avere accarezzato in passato l'ipotesi di aprire un ristorante tutto suo? In effetti, dopo avergli esternato la mia curiosità, dalle sua risposta ho capito che l'idea c'è stata, ma secondo lui ormai sarebbe troppo tardi, se si fossero create le condizioni favorevoli dieci anni fa probabilmente avrei conosciuto anche il Mangiarotti imprenditore della ristorazione, però le idee ed anche qualche ricetta ci sono, magari da veicolare in qualche consulenza, ci sono molti locali che ne avrebbero tanto bisogno.

 

Giugno d'esami per la Scuola Maestri Pizzaioli Professional

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EsamiPizzaGiugno2017 01Per la prima volta ho avuto l'occasione di partecipare a una giornata dedicata agli esami finali che coronano il percorso di studio di circa 3 mesi sostenuto dai ragazzi iscritti alla Scuola Maestri Pizzaioli Professional guidata da Giuseppe D'Angelo, ideatore e presidente della scuola, e dagli istruttori Francesco Bumbello, Pino Vitrano, Vincenzo Mineo, Alex Sampino e Davide Vernengo che si è svolta Martedì 20 Giugno 2017 presso la Pizzeria Don Carmelo di Palermo.

La Scuola Maestri Pizzaioli Professional è una scuola professionale che ha come obiettivo quello di formare, dando delle basi di partenza solide, futuri pizzaioli tramite corsi specializzati tenuti da parte di esperti del settore. A questa sessione di esami hanno preso parte 15 ragazzi molto motivati e ragionevolmente tesi ed emozionati, Domenico Amato, Marco Amato, Thomas Christopher Belli, Gabriele Bonincontro, Mauro Callivà, Giovanni Costantino, Nicolò D'Anna, Gabriele D'Antoni, Vito Maurizio Davì, Jebali Fathim, Omar Lo Giudice, Marco Maniaci, Tornike Mskhiladze, Franco Scliffò, Salvatore Schirò, con una vasta gamma di nazionalità, età e background professionale e scolastico. Nella prima parte della giornata si è svolto il test scritto costituito da ben 57 domande inerenti la chimica e la biologia degli impasti oltre che le caratteristiche sensoriali delle materie prime e le nozioni di base sull'HACCP, successivamente si è proceduto con una interrogazione degli stessi sui medesimi argomenti e a seguire la prova pratica con la preparazione e la presentazione del loro "capolavoro" alla commissione composta oltre che dagli istruttori anche da Rosario Seidita, Chef e Segretario dell'A.P.C.P. PA (Associazione Provinciale Cuochi e Pasticceri di Palermo), Angelo Serio, Maitre e Tesoriere dell'AMIRA Palermo, Francesco Lelio, Chef in rappresentanza dello Street Food Internazionale e Aurelio Garonna, Chef e fondatore dell'Accademia della Cucina Siciliana. Alla fine della giornata sono stati consegnati i diplomi di partecipazione al corso formativo e naturalmente sono state scattate tutte le foto di rito.

EsamiPizzaGiugno2017 02A questa giornata hanno preso parte inoltre ex corsisti che oggi lavorano con successo come pizzaioli, alcuni dei quali sono intervenuti per raccontare delle loro esperienze di successo che si è esteso in alcuni casi anche all'estero. Come tiene a ribadire il presidente della scuola D'Angelo, da questo percorso non escono pizzaioli professionisti ma potenziali pizzaioli che necessitano di molti anni di esperienza prima di potersi definire tali, ma sicuramente questo percorso costituisce il primo passo per poter entrare in maniera consapevole nel mondo del lavoro. Gli aspiranti pizzaioli si sono destreggiati nella realizzazione di impasti con diverse miscele di farine, da quelle di grani antichi siciliani a quelle realizzate totalmente senza glutine, con diversi metodi di impastamento, diretto o indiretto, con l'utilizzo di yogurt o di semi all'interno dell'impasto oltre al diverso periodo di maturazione.

EsamiPizzaGiugno2017 03L'inesperienza dei giovani pizzaioli si è vista soprattutto sulla scelta degli ingredienti e degli abbinamenti sui quali a mio avviso c'è ancora molto da lavorare tranne per alcune eccezioni; infatti, per mio gusto personale non sono una fan delle pizze troppo elaborate con un utilizzo massiccio di salumi o pesce affumicato che monopolizzano il sapore della pizza non facendo percepire in alcun modo gli altri ingredienti e soprattutto l'impasto, un vero peccato se si pensa a quanto tempo si spende per prepararlo e per trovare la giusta miscela di farine e conseguente idratazione. Una piacevole eccezione, invece, è stata la pizza proposta da Gabriele D'Antoni, il quale ha voluto in qualche modo esaltare la stagionalità e l'appartenenza al territorio siciliano, infatti, ha conquistato i palati della commissione e del pubblico, me compresa, con un impasto realizzato con 3 tipologie di grani siciliani sia duri che teneri (Tumminia, Maiorca, Russello), farcito con tenerumi (che per chi non fosse palermitano non sono altro che le foglie tenere della zucchina lunga conosciuti anche come taddi), pomodoro pelato, acciughe, pomodoro secco, primosale e briciole di Pane Nero di Castelvetrano tostato. Per certi versi questa pizza mi ha ricordato la tipica focaccia messinese che viene condita con pomodorino, acciughe, tuma e indivia riccia, con quel sapore però più fresco e leggermente dolciastro tipico dei tenerumi. Sicuramente una variante estiva che mi ha sorpreso positivamente e che potrebbe fare concorrenza alla ben nota "faccia di vecchia".

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Una tesi sul Pane di Monreale: 3. La ricerca

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Obiettivi della ricerca

Scopo principale del lavoro è stato quello di isolare e caratterizzare le specie di lieviti e LAB autoctoni dell'impasto acido, utilizzato nella produzione artigianale del Pane di Monreale, responsabili della fermentazione del prodotto da forno. Fino ad oggi infatti il Pane di Monreale non è stato oggetto di studio e di iniziative volte alla tutela della sua tipicità; questo ha causato nel tempo una diminuzione delle caratteristiche che lo rendevano riconoscibile tra la moltitudine di pani della tradizione siciliana e ha determinato una perdita del patrimonio culturale e del saper fare legato alla sua produzione; lo studio e il conseguente incremento di informazioni sulla popolazione microbica naturale di un alimento o di parte di esso può essere quindi considerato un ottimo mezzo per prevenire la perdita della biodiversità dei cibi tradizionali. Un ulteriore obiettivo è stato ampliare le conoscenze relative agli impasti acidi impiegati per la realizzazione di pani tipici siciliani, in modo tale da confrontare i dati ottenuti con i dati presenti in letteratura e contribuire all'individuazione di una possibile correlazione fra la microflora degli impasti acidi e l'ambiente geografico di produzione, tema ampiamente discusso nella comunità scientifica. Per ottenere un quadro completo sullo stato dell'arte, allo scopo di mantenere viva la memoria dell'attività artigianale ancora praticata da alcuni panettieri di Monreale, sono state ricercate in maniera approfondita e specifica sia le metodologie di produzione e di mantenimento degli impasti acidi sia i metodi produttivi e le materie prime utilizzate da parte dei panettieri per la produzione del Pane di Monreale. Infine, grazie ai metodi di analisi sensoriale, è stato possibile analizzare i gusti e le abitudini di fruizione dei consumatori rispetto al Pane di Monreale. Tramite questa analisi si è cercato di capire se le preferenze fossero orientate o meno verso il Pane di Monreale prodotto in maniera tradizionale (impasto acido, forno a legna), per individuare se la perdita di elementi caratteristici del prodotto fosse imputabile ai cambiamenti di gusto dei consumatori o alla modernizzazione delle tecniche di panificazione che rendono più rapida la produzione.

Analisi delle materie prime utilizzate per la produzione del Pane di Monreale

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Figura 4.1: Pane di Monreale: la vastedda. (Foto:fotografiassociati.com)

Gli ingredienti impiegati per la realizzazione di qualsiasi tipologia di pane sono 4: acqua, farina, lievito e sale; ciò che muta è la loro varietà, il processo di impastamento e di cottura. Come per tutti i mestieri legati alla manualità e all'artigianalità le dosi degli ingredienti utilizzati per la realizzazione del Pane di Monreale sono molto approssimative perché sono legate alle variazioni climatiche (es.: t° ambientale, UR), alle variazioni legate alla materia prima (es.: umidità e capacità di assorbimento della farina) e alla tecnica utilizzata dal panettiere. Il mastro fornaio, grazie al suo savoir-faire costruito con l'esperienza, ha il compito fondamentale di individuare le possibili variabili e di modificare la ricetta in modo tale da ottenere un prodotto sempre costante e riconoscibile nel tempo. Di seguito sono riportati i risultati delle interviste ai panettieri di Monreale che hanno avuto come obiettivo quello di acquisire delle informazioni approfondite sulle materie prime e sulle metodologie impiegate per la produzione del Pane di Monreale.

Acqua

L'acqua che viene utilizzata sia per il rinfresco dell'impasto acido, sia per la produzione del pane stesso è l'acqua potabile fornita dal comune di Monreale che ha la caratteristica di essere un'acqua dura (valori medi di 26 °F, Min 19-Max 35).Questa sua caratteristica incide sicuramente sulla qualità dell'impasto e del prodotto finito; l'acqua infatti è di fondamentale importanza all'interno di un impasto, serve prima di tutto ad idratare le molecole e a formare la maglia glutinica oltre che ad essere un solvente per altri ingredienti quali sale, malto ecc. Le quantità adoperate per kg di farina variano dal 30% all'80% a seconda del tipo di farina e del metodo produttivo.

Farina

Per tradizione veniva utilizzata la semola burattata di grano duro, una via di mezzo tra la semola di grano duro per pasta fresca (presenta una granulometria molto grossolana) e la semola di grano duro rimacinata (la semola viene macinata due volte affinché i granuli si assottiglino). La semola di grano duro rimacinata è una materia prima particolarmente diffusa per la produzione di pane in tutta l'Italia meridionale e in tutto il bacino del Mediterraneo (Pane di Altamura, Pane di Matera, Pagnotta del Dittaino, Pane di Lentini). Oggi la semola rimacinata di grano duro viene prediletta dalla maggior parte dei panificatori di Monreale in quanto, essendo più sottile, garantisce un pane più leggero. Alcuni panettieri utilizzano delle miscele delle due tipologie di semola (es. rapporto 8 a 2, N°1-3, Tab.4.1).

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Figura 4.2: Semola di grano duro rimacinata. (Fonte:cucinartusi.it)

Gli impasti ottenuti da semola rimacinata di grano duro si contraddistinguono per un'elevata tenacità e una limitata estensibilità (Pogna et al.,1996), questo comporta che l'impasto, realizzato con questa materia prima, si sviluppi a livello volumetrico in maniera inferiore rispetto ad un impasto realizzato con farina di grano tenero. Una buona farina di semola di grano duro rimacinata destinata alla panificazione deve presentare un elevato contenuto proteico e una tenacità moderata (Boggini et al.,1997).
E' emerso che le farine utilizzate per la produzione del Pane di Monreale e per il rinfresco dell'impasto acido, se il suo impiego è previsto, provengono dai molini presenti nelle zone di Corleone, Monreale, Palermo, San Giuseppe Jato e Roccamena.

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Figura 4.3: Campo di grano della varietà Simeto. (Fonte: pastificiodeicampi.it)

Le varietà di grano duro principalmente utilizzata è il grano Simeto, una delle cultivar moderne siciliane (ottenuta nel 1988 da un incrocio tra la varietà Capeiti 8 e Valnova presso la Stazione sperimentale di Granicoltura di Caltagirone1) più coltivate su tutto il territorio Italiano (Álvaro et al., 2008). Alcuni panettieri utilizzano miscele di cultivar Simeto e di cultivar Russello (N°3, Tab.4.1). Molti fornai però si affidano alle miscele che il molino propone loro senza curarsi della varietà di grano da utilizzare per la realizzazione del Pane di Monreale. Ciò accade perché non esiste un disciplinare di produzione che indichi in maniera specifica le varietà di grano da impiegare e l'area di provenienza delle stesse.

Sale

La percentuale di NaCl utilizzata varia dal 1,0-3,0% a seconda delle panetterie prese in considerazione; le quantità rilevate sono in linea con le percentuali normalmente utilizzate per la realizzazione degli impasti per la produzione di pane. Il sale, oltre ad avere la funzione di esaltare l'aroma del prodotto da forno, ha degli effetti positivi sulla struttura dell'impasto, infatti la rafforza. Inoltre l'NaCl è capace di rallentare la produzione di CO2 durante le fasi di lievitazione (Gobbetti & Corsetti, 2010).

Impasto acido

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Figura 4.4: Impasto acido di Monreale. (Foto: fotografiassociati.com)

Per la preparazione del Pane di Monreale l'impasto acido, quando presente, è utilizzato nelle percentuali del 25-30% su Kg di farina, la quantità utilizzata dipende principalmente dalla stagione climatica: durante il periodo invernale, viste le temperature relativamente rigide (ricordiamo che il comune di Monreale si trova a 310 m.s.l.m.) si tende ad adoperarne una percentuale più alta in modo tale da mantenere gli stessi tempi di lievitazione. Al contrario durante il periodo estivo si tende a ridurre la quantità di impasto acido utilizzato per evitare che l'impasto vada in sovra-lievitazione date le alte temperature estive. L'impasto acido viene rinfrescato con l'utilizzo della stessa farina di semola di grano duro rimacinata (o in alcuni casi semola di grano duro burattata) che viene impiegata per la produzione del pane. Gli impasti acidi utilizzati sono della tipologia I, la tipologia tradizionale, e presentano una percentuale di idratazione compresa tra 45-50% (DY circa 150-160). Le percentuali di acqua utilizzate per il rinfresco dipendono dall'umidità della farina e dell'ambiente circostante, fattori che influenzano in maniera significativa la quantità d'acqua necessaria per ottenere un impasto dalla giusta consistenza. L'impasto acido viene rinfrescato il pomeriggio/sera per poi essere utilizzato la mattina successiva per la panificazione. I tempi e le temperature di rinfresco variano a seconda della panetteria: la metodologia più frequente prevede che l'impasto acido venga lasciato a temperatura° ambiente (circa 20 °C) per circa 8h di lievitazione; una metodologia meno diffusa invece prevede che l'impasto acido rinfrescato trascorra un'ora a temperatura° ambiente, per avviare il processo di fermentazione, e successivamente venga posto a 5°C all'interno di armadi frigoriferi per circa 12h. Alcuni panettieri (N°1, Tab.4.1) utilizzano, in associazione all'impasto acido, piccole quantità di lievito di birra (circa 0,2% su Kg di farina) per dare la spinta finale nell'ultima fase di lievitazione, altri invece utilizzano della pasta di riporto (circa 10% su Kg di farina, N° 4, Tab.4.1) prelevata da impasti realizzati con farina di grano tenero e lievito di birra che vengono lasciati maturare e poi aggiunti nella fase di impastamento. Questi impasti adoperati risultano essere più tenaci e vengono utilizzati per ottenere un pane più leggero e alveolato, che con l'utilizzo esclusivo di impasto acido risulterebbe più pesante e presenterebbe un'alveolatura più fitta. Altri panettieri (N° 2, Tab.4.1) invece utilizzano come agente lievitante una porzione dello stesso impasto realizzato per il Pane di Monreale (pasta di riporto), che viene prelevata dopo l'impastamento, lasciata acidificare a temperatura° ambiente tutta la notte e aggiunta l'indomani al nuovo impasto.

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Tabella 3.1: Materie prime e metodologie di produzione utilizzate dalle panetterie per la realizzazione del Pane di Monreale.

Lievito di birra

Oggi per la produzione del Pane di Monreale la maggior parte dei panettieri utilizza esclusivamente lievito di birra (N° 5-6-7-8-9-10, Tab.4.1). In alcuni casi in associazione al lievito di birra viene impiegata pasta di riporto di grano tenero proveniente da altri impasti (circa 9 % su Kg, N°5-7, Tab.4.1), aggiunta allo scopo di ottenere un pane più alveolato e soffice. La sostituzione del tradizionale impasto acido con il lievito di birra viene imputata principalmente alla mancanza di tempo; infatti i panettieri sottolineano che la panificazione con l'impasto acido è molto più impegnativa, richiede tempistiche quasi raddoppiate e non garantisce un prodotto stabile nel tempo.

Analisi delle metodologia di produzione e cottura del Pane di Monreale

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Figura 4.5: Forme pronte per la cottura.

La metodologia di impastamento è risultata comune a tutte le 10 panetterie prese in esame. Tutti gli ingredienti vengono impastati all'interno dell'impastatrice. Una volta che la massa risulta essere liscia e ben incordata, l'impasto viene fatto riposare per circa 10 minuti (puntatura), in questo modo l'impasto risulta più morbido e maneggevole per la successiva fase di formatura. Trascorsa la fase di riposo, avviene la pezzatura dell'impasto e la successiva formatura dei filoni (circa 500 g) e delle pagnotte (circa 1kg), la superficie di quest'ultimi è spennellata con acqua e cosparsa con una manciata di semi di sesamo. I filoni, posti su delle tavole di legno, vengono lasciati lievitare all'aria o coperti da un telo in plastica a t° ambiente fino a quando il volume non è raddoppiato (da 1h a 3h). Se coperti durante la lievitazione, poco prima di infornarli, sono lasciati all'aria per permettere la formazione sulla superficie della "pelle", in questo modo si otterrà in cottura una crosta spessa. Prima di infornare il pane, sulle forme vengono praticati dei fori perpendicolari, più raramente delle incisioni, per favorire la fuoriuscita del vapore durante la cottura.

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Figura 4.6: Rami di ulivo per alimentare il forno a legna.

I tempi di cottura variano a seconda del tipo di forno utilizzato (forno a legna a fuoco diretto o indiretto e forno elettrico) e rispetto al tipo di pezzatura. In media le forme da 1Kg impiegano circa 45 minuti- 1h.

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Figura 4.7: Fase dell'infornata del pane nel forno a legna.

 

Prima puntata: - La premessa
Seconda puntata: L'impasto acido
Terza puntata: La ricerca
Quarta puntata: Le conclusioni

 

Una tesi sul Pane di Monreale: 4. Le conclusioni

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Discussioni e Conclusioni

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Figura 4.24: Il Pane di Monreale. Particolare della fetta. (Foto: fotografiassociati.com)

Con questo studio si è cercato di esaminare approfonditamente gli elementi caratteristici del tradizionale Pane di Monreale analizzandone i metodi produttivi e le materie prime adoperati per la sua preparazione, focalizzando la ricerca sull'impasto acido dal quale sono stati isolati e caratterizzati una specie di lievito e due specie di LAB e testandone, tramite metodi sensoriali, le preferenze dei consumatori.
L'analisi preliminare delle materie prime e delle metodologie utilizzate per la produzione del Pane di Monreale è stata utile per scegliere l'impasto acido da analizzare con metodi genetici e per avere una panoramica dello stato dell'arte attuale. Da questa analisi è emerso che esiste una evidente disomogeneità nei metodi e nelle materie prime utilizzate per la produzione del Pane di Monreale. La maggior parte dei panificatori (circa il 70%) utilizza esclusivamente la semola di grano duro (rimacinata o burattata) come ingrediente principale, in particolare della cultivar Simeto che ha sostituito totalmente le cultivar adoperate precedentemente per la panificazione nel territorio di Monreale. I restanti producono un pane misto, in cui è presente sia semola di grano duro sia farina di grano tenero inserita sotto forma di pasta di riporto.
All'inizio dell'Ottocento nel verbale di Scandaglio1 del 14/12/1821 relativo al territorio del comune di Monreale, è attestata la distinzione di tre tipologie di pane in base alla cultivar di frumento duro adoperata: pane fino, medio ed ordinario. Il pane fino era prodotto con una miscela costituita dal 50% di cultivar Castiglione e dal 50% di cultivar Giustalisa; il pane medio era preparato con una miscela formata dal 25% di Castiglione, 25% di Giustalisa, 25% Palmentella e 25% di Sambocara, infine il pane ordinario era costituito da una miscela al 50% di Palmentella e Sambocara. Tali cultivar oggi sono considerate grani antichi e custodite presso la Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia.
Per quanto riguarda l'agente lievitante, soltanto il 30% dei panificatori monrealesi oggetto dell'indagine utilizza il tradizionale impasto acido per la produzione del Pane di Monreale, in alcuni casi in associazione con piccole quantità di lievito di birra, mentre del restante campione analizzato, il 60% utilizza esclusivamente il lievito di birra e il 10% utilizza unicamente pasta di riporto di semola di grano duro.
Infine, per quanto riguarda il metodo di cottura, è emerso che la stessa percentuale di panificatori che impiega l'impasto acido e la pasta di riporto di semola di grano duro utilizza il forno a legna a fuoco diretto, invece il pane prodotto con lievito di birra o a lievitazione mista viene cotto con il forno a legna a fuoco indiretto per il 40% dei casi e per il restante 30% con il forno elettrico.
Dall'analisi dei dati è emerso che le metodiche tradizionali sono state sostituite nella maggior parte dei casi da innovazioni tecniche che ne hanno facilitato la produzione modificando però, come dimostrato anche dall'analisi sensoriale, le caratteristiche sensoriali del prodotto da forno. Ciò è avvenuto per l'assenza di un disciplinare di produzione che tuteli i metodi produttivi tradizionali.
La richiesta di un marchio di tutela quale quello IGP, infatti, non è mai stata presentata a causa della mancanza di un consorzio dei panificatori presenti sul territorio del Comune di Monreale, nonostante vari tentativi posti in essere per la sua creazione, data l'esistenza di un forte disaccordo sulle metodologie produttive e sulle materie prime adoperate.
Per completezza è stato richiesto ai panificatori il prezzo al Kg del prodotto. Dall'analisi è emerso che i prezzi sono molto disomogenei tra loro; il prezzo varia in relazione alla posizione più o meno centrale della panetteria, oltre che dalla enorme concorrenza esistente tra le stesse presenti nel piccolo centro dove è in atto una vera e propria guerra del prezzo al ribasso per accaparrarsi una maggiore clientela. Il prezzo medio del Pane di Monreale è di 1,90€ al Kg, un prezzo al di sotto della media nazionale che varia da 1,90€ a 3,98 € al Kg2 e della media della vicina città di Palermo dove il pane di semola di grano duro costa in media 2,80 € al Kg.

La ricerca si è poi incentrata sulla analisi genetica dell'impasto acido, individuando ed analizzando per la prima volta i lieviti e i LAB presenti all'interno di un impasto acido utilizzato per la produzione artigianale del Pane di Monreale tradizionale. Il rapporto presente tra i lieviti e i LAB in condizioni di crescita aerobiche è pari a 1:10, invece il rapporto tra lieviti e LAB posti in condizioni anaerobiche è pari a 1: 100; questi rapporti sono comunemente riportati in letteratura. (Gobbetti et al.,1994b, Succi et al. 2003, Pulvirenti et al., 2004, Scheirlinck et al., 2007). Nell'impasto acido sono state identificate geneticamente due specie di LAB, il Lb. paralimentarius e il Lb. pontis, e una sola specie di lievito, il Saccharomyces cerevisiae.

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Tabella 4.1: Risultati del sequenziamento per i LAB.

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Tabella 4.3: Risultati del sequenziamento per i lieviti.

Coerentemente ad altri studi sulla biodiversità degli impasti acidi effettuati in Italia e in Europa, la microflora dell'impasto acido di tipo I del Pane di Monreale è dominata da LAB eterofermentanti (Corsetti et al., 2001 ; De Vuyst et al., 2002; Scheirlinck et al., 2007). La specie di LAB predominante all'interno dell'impasto acido è il Lb. paralimentarius, eterofermentante facoltativo e anaerobio facoltativo, (9 isolati su 10). Esso, infatti, è cresciuto in tutte le tipologie di terreno e in ogni condizioni di crescita; invece il Lb. pontis, eterofermentante obbligato, è stato isolato esclusivamente sul terreno di coltura MRS5 posto in condizioni anaerobiche. Il Lb. paralimentarius (Cai et al., 1999) è stato isolato negli impasti acidi di altri pani tradizionali siciliani come nel Pane di Castelvetrano e nel Pane di Lentini (Minervini et al., 2012), i quali hanno in comune l'utilizzo di semola di grano duro nella produzione. Nel resto della penisola il Lb. paralimentarius è stato isolato all'interno di impasti acidi utilizzati per la realizzazione di pani prodotti con farina di grano tenero (Triticum aestivum) come nella Coppia Ferrarese IGP, nel Bastone di Padova e nella Bozza Pratese (Minervini et al., 2012) ed inoltre è stato isolato in Molise (Gatto e Torriani, 2004), in Abruzzo (Valmorri et al., 2006) e nelle Marche (Osimani et al., 2009). A livello europeo il Lb. paralimentarius è una specie dominante di LAB eterofermentanti isolata negli impasti acidi tradizionali belgi (in particolare di segale e grano), (Scheirlinck et al., 2007), francesi (Ferchichi et al., 2007) e greci (De Vuyst et al., 2002). Inoltre è stato isolato negli Stati Uniti d'America all'interno di impasti acidi di grano (Kitahara et al., 2005) e in Cina in impasti acidi tradizionali prodotti con il riso (Zhang at al., 2011). La diffusione di questa specie di LAB, isolata negli impasti acidi a livello mondiale, mostra come non vi sia una correlazione certa tra le specie di LAB isolate e il territorio d'origine (De Vuyst et al., 2014). Lb. pontis (Vogel et al. 1994), è stato isolato principalmente all'interno di impasti acidi del nord Europa come in Belgio, in particolare di grano e di segale, (Scheirlinck et al., 2007), in Francia, in impasti acidi di grano, (Ferchichi et al., 2007) e in Germania in impasti acidi di segale, (Vogel et al., 1999, Müller et al., 2001, Meroth et al 2003), in impasti acidi di riso, (Meroth et al., 2004) e in diversi impasti acidi di cereali e pseudo cereali, (Vogelmann et al., 2009). Per quanto riguarda la penisola italiana, in letteratura non sono presenti riferimenti che menzionino l'isolamento di Lb. pontis all'interno di impasti acidi tradizionali. In questo lavoro, per la prima volta, questa specie è stata isolata da un impasto acido di grano duro prodotto in Italia e in particolare in Sicilia. Un'ulteriore novità è la tipologia di materia prima con cui è prodotto l'impasto acido; infatti fino ad ora questa specie di LAB era stata isolata all'interno di impasti acidi di segale, di riso e di grano tenero e mai in impasti realizzati con semola di grano duro. L'isolamento di questa specie di LAB probabilmente è imputabile alla tipologia di terreno di coltura utilizzato e alle condizioni di crescita più favorevoli, infatti, è stato dimostrato che il Lb. pontis, come il Lb. panis, necessitano di specifiche sostanze per la crescita (De Vuyst and Vancanneyt, 2007). Invero, in questo studio, il Lb. pontis è stato isolato unicamente sul terreno MRS5, un terreno di coltura più ricco di componenti nel quale sono presenti sia specifiche vitamine sia amminoacidi. Inoltre, si potrebbe ipotizzare che la presenza di questa specie di LAB è imputabile alle caratteristiche del territorio in cui viene prodotto.

Per quanto riguarda i lieviti, l'unica specie isolata è il Saccharomyces cerevisiae, che è la più comunemente isolata all'interno degli impasti acidi siciliani (Pulvirenti et al., 2004) e del mondo (De Vuyst et al., 2014), probabilmente sia perché nell'ambiente di produzione è utilizzato il lievito di birra per la preparazione di altri prodotti da forno sia per la possibile presenza del S. cerevisiae all'interno della farina utilizzata per la produzione dell'impasto acido (Corsetti et al., 2001 Vrancken et al., 2010).

Infine la ricerca è stata completata con l'analisi sensoriale del Pane di Monreale, il cui obiettivo è stato quello di individuare le preferenze dei consumatori riguardo le metodologie di produzione più o meno tradizionali del prodotto; tale analisi si è incentrata in particolare sull'esame di due pani, uno prodotto con l'impasto acido e cotto nel forno a legna tradizionale e l'altro prodotto con lievito di birra e cotto nel forno elettrico.

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Tabella 3.2: Descrizione delle caratteristiche dei campioni di Pane di Monreale utilizzati per l'analisi sensoriale.

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Figura 3.9: Campioni di pane utilizzati per l'analisi sensoriale. In alto Pane di Monreale prodotto con lievito di birra e cotto nel forno elettrico; in basso Pane di Monreale prodotto con impasto acido e cotto nel forno a legna. (Foto: fotografiassociati.com)

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Figura 3.10: Campioni di pane utilizzati per l'analisi sensoriale. A sinistra Pane di Monreale prodotto con impasto acido e cotto nel forno a legna; a destra Pane di Monreale prodotto con lievito di birra e cotto nel forno elettrico. (Foto: fotografiassociati.com)

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Figura 3.12: Somministrazione dei test sensoriali.

L'analisi dei dati ha mostrato che il 61% dei consumatori è stato in grado di individuare l'esistenza di una differenza tra i due pani esaminati, un dato molto interessante considerato che si tratta di assaggiatori non addestrati; inoltre il 72% degli stessi ha preferito il pane prodotto con la metodologia tradizionale, confermando che il gusto dei consumatori sia oggi orientato verso i prodotti della tradizione e del territorio.

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Figura 4.25: Risultati percentuali del test di preferenza sul Pane di Monreale

Le trasformazioni delle metodologie produttive sono spesso determinate sia da specifiche esigenze dei consumatori sia dal cambiamento del gusto degli stessi. Questi risultati invece dimostrano che la maggior parte dei consumatori preferiscono il pane prodotto con i metodi tradizionali, ciò significa che il cambiamento delle metodologie produttive verso tecniche innovative è in questo caso da ricercare altrove. L'impasto acido non è più utilizzato dai produttori per motivi strettamente legati alle tempistiche necessarie per realizzare i prodotti da forno e per la necessità di ottenere un prodotto costante nel tempo; occorrono infatti sapienti conoscenze del processo di lievitazione e del processo di cottura per produrre il pane con la metodologia tradizionale, che una volta venivano tramandate da generazioni in generazioni e che oggi sono quasi scomparse. I risultati ottenuti dall'analisi sensoriale sono, pertanto, molto incoraggianti per i produttori del Pane di Monreale e per tutti coloro che ancora oggi, nonostante tutto, si impegnano a produrre il pane seguendo le antiche tradizioni e mostrano come sia possibile produrre e commercializzare con successo un prodotto genuino.

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Figura 4.26: Frequenza di consumo e quantità consumate di pane espresse in %.

I dati emersi dall'analisi dei questionari mostrano che circa il 77% dei consumatori consuma una maggiore quantità di pane/die rispetto alla media nazionale che ammonta a circa 85 g di pane /die (Coldiretti, Febbraio 2016)4; questo probabilmente perché nel meridione ed in particolare in Sicilia il pane rappresenta ancora un elemento irrinunciabile all'interno del pasto. Il consumo di pane/die rientra però nella media nazionale se vengono presi in considerazione i dati riferiti alle donne, probabilmente per questioni legate al mantenimento della linea. Per quanto riguarda la frequenza di consumo del Pane di Monreale i dati mostrano che circa il 50% degli intervistati consuma il Pane di Monreale in maniera frequente, solo il 28% del campione ha dichiarato di non consumarlo mai.

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Figura 4.29: Risultati relativi alla frequenza di consumo e ai luoghi di acquisto del Pane di Monreale. 

Dall'indagine relativa ai luoghi di acquisto del Pane di Monreale, i dati emersi suggeriscono che soltanto una piccolissima fetta dei consumatori (9%) si reca a Monreale per acquistare il pane nelle panetterie tradizionali che utilizzano ancora il forno a legna. La restante parte, invece lo acquista direttamente a Palermo, sia nelle panetterie che lo rivendono, sia nelle panetterie che lo producono impropriamente e sia presso venditori ambulanti (37%) sparsi per tutta la città ed in particolare presenti durante i giorni festivi, che rivendono il pane prodotto a Monreale. Costituisce infatti abitudine consolidata per i Palermitani acquistare il pane per la strada, rientrando tale abitudine nella cultura del cibo da strada, tratto caratterizzante del folklore cittadino.

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Figura 5.1: Venditore ambulante di Pane di Monreale (Fonte: panoramio.com).

 

 

Prima puntata: - La premessa
Seconda puntata: L'impasto acido
Terza puntata: La ricerca
Quarta puntata: Le conclusioni

 

Lino Sauro, cittadino siciliano e cuoco nel mondo

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LinoSauro2017 01Per essere precisi e per rendere ancora più onore al merito, lo chef siciliano Lino Sauro è originario di Gangi, grazioso paesino in provincia di Palermo incastonato tra i monti delle Madonie, eletto Borgo e Gioiello d'Italia, nonchè oggi centro di cultura ed intrattenimento turistico grazie alle politiche promozionali condotte dalle ultime amministrazioni locali. Lino ha attirato la mia attenzione grazie alla sua storia, in verità non nuova e sovrapponibile a quella di Riccardo La Perna un altro mio intervistato eccellente che si è fatto valere all'estero. Nel caso di Lino, la storia è iniziata con la sua smania di esplorare il mondo lontano dalla provincia che gli ha dato i natali, ed a quel tempo le uniche strade percorribili erano la carriera militare o la cucina, la scelta, causa soprannumero nelle fila dell'esercito, è caduta sulla seconda, complice l'alberghiero di Cefalù (PA).

Un aspetto importante della formazione di uno chef è sicuramente la possibilità di girare il mondo frequentando cucine diverse, nel caso di Lino, forse ha addirittura esagerato perchè oltre alle numerose "stagioni", effettuate durante il corso di studio, ha anche visitato mezzo mondo ed in una parte di questo ci ha pure cucinato.

La svolta della sua carriera però è arrivata nel momento in cui ha ascoltato i consigli di alcuni suoi amici che gli hanno proposto di far uscire il siciliano che era in lui, ormai alla "veneranda" età di circa 30 anni. E' stato così che sono nati prima il Ristorante Gattopardo a Singapore e poi il Ristorante Olio a Sidney in Australia, presso cui il nostro Lino ha letteralmente imposto la cucina siciliana anche se condita con alcune idee mutuate direttamente dall'orientale.

Lino mi ha raccontato questo e tanto altro nella video-intervista che mi ha gentilmente concesso lo scorso 27 Agosto 2017 nell'accogliente terrazza della Trattoria Sant'Anna a Gangi, interrompendo le sue vacanze e poco prima di eseguire un cooking show dedicato ai suoi compaesani, per cui se volete sapere anche cosa ama mangiare a tavola e cosa lo coinvolge in pasticceria, bisognerà che la vediate tutta!

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